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Support your local team! - da Un Cuore Grande Così il 25/09/2013 @ 15:51

Perché dovresti tifare proprio per la squadra della tua città? (da: blackpagefootball.com)
Da ragazzino ero un tifoso sfegatato del Tottenham Hotspur. Non sono del nord di Londra, e tanto meno inglese, ma ero un tifoso: seguivo le sorti della squadra, guardavo le loro partite appena possibile e compravo (o piuttosto ricevevo) le divise non originali, che indossavo con orgoglio mentre tentavo di emulare i miei idoli Stephen Carr, Jürgen Klinsmann e Darren Anderton.
Per aver scelto quella squadra, dovevo sopportare gli inevitabili sfottò di quelli che ho sempre pensato fossero tifosi di Liverpool e Manchester United solo perché erano club vincenti, e scoprii persino di essere vagamente solidale con altri sofferenti sostenitori degli Spurs.
Ma era una mia scelta? Cioè, tifare per gli Spurs era davvero una mia scelta?
La risposta breve è no; ero, per usare un termine piuttosto crudo, indottrinato. Mio padre (neanche lui del nord di Londra) tifava per gli Spurs e, al tempo, pareva semplicemente naturale per me fare altrettanto. In effetti era abbastanza prevedibile che mi comportassi così. Quando ci ripenso, era davvero una grande opportunità per creare un legame tra di noi (credo che ogni padre dovrebbe sforzarsi di trovare un’attività in cui poter coinvolgere il figlio).
Comunque, crescendo persi gradualmente interesse per gli Spurs, le cui sorti, per un crudele rovescio del destino, al contrario miglioravano. Improvvisamente mi sentivo strano a tifare per una squadra con cui non avevo nessuna relazione personale e nemmeno ideale, una squadra che, in realtà, non mi rappresentava. Così, decisi piuttosto di concentrare le mie energie sulla squadra della mia città, il Derry City.
Ho frequentato regolarmente il Brandywell nei tardi “90” e nei primi “2.000”, andando alle partite con mio padre e un cugino che aveva l’abbonamento. Vinsi addirittura il concorso del Derry Journal “Una faccia nel pubblico” che, per la mia gioia, mi fruttò le ultimissime prima e seconda maglia del Derry City dell’epoca. Fu quasi una sorta di consolazione per l’imbarazzo di avere la mia immagine a bocca aperta trasmessa al City (qualcosa per cui amici e professori non persero tempo a prendermi in giro).
Più o meno nel periodo in cui ero nato, il Derry City era una delle squadre più forti d’Irlanda, ma intorno ai primi “2.000” le loro sorti erano parecchio in declino. Tuttavia, questo non mi impedì di gustare le mie regolari gite al Brandywell. Uno degli spettacoli più belli cui abbia mai assistito furono i play-out del 2003, quando la leggenda del City Liam Coyle, nella sua ultima partita di sempre, condannò i rivali locali del Finn Harps a un’altra stagione in First Division davanti a un pubblico di oltre 7.000 persone. Una cosa magica.
A quasi 10 anni da quel giorno, tifo ancora per il Derry City e nel frattempo ci sono stati un bel po’ di “alti” e, sfortunatamente, alcuni “bassi”. Come può un tifoso del Derry City dimenticare la meravigliosa avventura europea del 2006 o le (diverse) coppe vinte? Allo stesso modo, i tifosi hanno conosciuto il dolore di una rancorosa caduta in disgrazia quando il club fu sommerso dalle polemiche e retrocesso, per la prima volta nella sua storia, nel campionato irlandese di First Division. Una cosa è certa, seguire il Derry City non vi lascerà a corto di drammi.
In ogni caso, per me la vera attrattiva è il senso di appartenenza che mi dà tifare per il club. Quando guardo il Derry City in televisione o viaggio al seguito delle trasferte, guardo una squadra di giocatori modestamente retribuiti, la maggior parte dei quali proviene da Derry e dall’area circostante. Con alcuni giocatori del City ci sono anche andato a scuola, e ho giocato con e contro degli altri – davvero la relazione è tangibile.
Quando invito le persone a tifare per la squadra della loro città invece che per qualche entità straniera tipo Manchester United o Celtic Glasgow, questo non nasce, come si potrebbe equivocare, da un odio meschino per tutto ciò che è "British", viene dal desiderio genuino di contribuire alla prosperità delle attività locali.
Ma per usare le parole sarcastiche di un mio buon (grande, direbbe lui) amico: “Sicuro che c’è un vantaggio nel tifare per la squadra della propria città? Perché prendersi il disturbo di fare un breve tragitto fino al Brandywell e spendere una piccola somma per veder giocare una squadra di concittadini, quando potresti spendere somme spropositate tifando per una squadra di un altro paese piena di individui strapagati?”. Già. Perché prendersi il disturbo?
Sostieni la squadra della tua città! Support your local team!

Sotto, 'fantasia' di tifosi della nazionale russa allo stadio

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Il Grifone fragile, giovedì 26 ore 16 lato Tribune - da Un Cuore Grande Così il 25/09/2013 @ 12:42

Dal profilo facebook di Roberto Scotto:
Buongiorno, parlare di calcio con il Genoa degli ultimi anni è fatica sprecata, continuiamo a farci del male da soli.. E' sotto gli occhi di tutti l'incompetenza come allenatore di Liverani, nel calcio come nella vita, la differenza la fa l'esperienza, la gavetta, quest'anno dopo due anni disastrosi, pensavamo che ad una rosa già più decente si accoppiasse un allenatore d'esperienza che potesse dare un minimo di gioco e meno patimenti, chi ha scelto di partire con un allenatore che aveva fatto solo gli Allievi si è assunto una grande responsabilità e come sempre a pagare sono i tifosi, mi aspetto i mea culpa a breve, ma non cambiano il mio giudizio, è stato un azzardo che pagheremo ancora per un po'! Se poi ci volessero anche far capire che cazzo fa Rosati gliene saremmo grati! Comunque il nostro compito è di mantenere viva la Genoanità nella speranza che qualcuno si accorga di questo "Gigante Addormentato" che per la stampa inglese è il Genoa 1893, una potenzialità che solo chi ama il calcio riesce a vedere.. Con tutto il rispetto il P.S.G. o il Monaco non hanno nemmeno lontanamente il fascino della storia e della leggenda dei pionieri del calcio in italia e in europa, e in attesa che qualcuno capisca, noi continuiamo ad essere il solo patrimonio della società, i suoi meravigliosi tifosi.. Detto questo e per ribadirlo, domani sotto la Tribuna alle ore 16 ci sara la presentazione del Libro.. Grifone fragile, dedicato al Faber genoano, quello meno conosciuto, quello se possibile ancora più vicino a noi, ma saremo lì anche a festeggiare a sorpresa gli 80 anni di Pippo Spagnolo.. Uno dei padri fondatori della T.O... Siete quindi invitati a partecipare se ne avrete piacere, e siccome tanta gente mi ha chiesto dove comprare il libro e quanto costa (cose che non sapevo assolutamente) mi sono preso la briga di chiedere che per la presentazione ci fosse un prezzo migliore per i genoani, così mi hanno assicurato che il costo sarà di 14 euro invece di 17 e ci sarà un banchetto della libreria così se qualcuno pensava di comprarselo o regalarlo può risparmiare qualcosa che di questi tempi non guasta!.. Nel post c'è un passaggio del libro dettato da Pippo.. Consiglio a tutti di leggere bene perche cosi tanta genoanita di due personaggi puo solo fare bene!..
Un abbraccio... Roby
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Essere del Genoa è un inno alla libertà, al mare. (dal libro Il Grifone fragile di T. Cagnucci) "Quella sciarpa gliel'ho regalata io..."
«Dentro alla bara di Fabrizio c’è una sciarpa del Genoa... Quella sciarpa gliel'ho regalata io... Fabrizio era uno del grande popolo del Genoa. Lui queste cose le sapeva bene, le sapeva meglio di chiunque altro. Di che parliamo? Di questo sentimento di genoanità. Di quel campionato di serie C, di quel Genoa lì... Le sapeva persino meglio di me certe cose De André, eppure senza di me sugli spalti il Genoa non giocava. La mia prima partita allo stadio è del 1939, Genoa contro Liguria, all’epoca loro (i doriani, nda) non c’erano... Mi chiedi perché i doriani non cantano allo stadio Creuza de ma? E ti credo, come fanno? ... Genova non è roba loro. Non li consideravamo, io non so chi siano. A Genova sono famoso anche per questo, una volta Il Secolo uscì con una pagina e un titolo: "Ecco l'uomo che non ha mai nominato la Samp". (...) La Liguria aveva la maglia nera, era la squadra dei fascisti. Anche in questo Fabrizio è stato profondamente genoano. Anarchico nell’anima. Sotto il fascio ci hanno costretto a cambiare nome, ci hanno chiamato Genova, perché noi eravamo la squadra del popolo, ma anche la squadra fondata dagli inglesi. Io me le ricordo le irruzioni delle squadracce in piazza De Ferrari in sede. Essere del Genoa è un inno alla libertà, al mare. E Fabrizio De André più di ogni altro ha cantato la libertà. Per me il Genoa è sempre stato tutto. Ho fondato club e ho vissuto la Gradinata Nord. C’era un tempo in cui se non andavo allo stadio non cominciava la partita, ancora adesso vado allo stadio, sempre andrò a vedere il Genoa, in tribuna o a salutare i ragazzi della Gradinata. Li conosco tutti. Sono stato testimone di nozze di Ramon Turone, che grande Ramon, l’hai sentito? Lui l’ha conosciuto Faber. Quando abbiamo vinto quel mitico campionato di serie C, poi l’hanno venduto al Milan, lui quella sera è venuto a bussare a casa mia piangendo, sbattendo la porta: “Pippo fai qualcosa tu, fammi restare, non mi far andare via dal Genoa”. L’ho dovuto consolare e dirgli io: “Guarda cazzo che vai al Milan!”. Non gliene fregava niente, Ramon era stato il Capitano di quel Genoa entrato per sempre nei nostri cuori, dei cuori malati di Genoa come quello di Faber. Quando Turone è andato a Roma sono andato a trovarlo, a Via Appia. Io simpatizzo per la Roma. Ci legano tante cose... Ogni genoano sente l’orgoglio di avere Fabrizio De André nella sua famiglia, è uno di noi, gli abbiamo fatto parecchi striscioni. La sua era una passione incolmabile di cui io sono testimone. Il testimone della fede di Faber. Mi piace questa cosa. Lui era uno del popolo del Genoa. E c’è tanto dell’essere genoani nel suo modo di cantare. Fabrizio De André non era un simpatizzante, non era uno così, era uno colto del Genoa, uno che ci capiva, che non lo esternasse è un altro conto. E pure questo fa parte della genoanità. Noi non svendiamo le cose. (...) Parlavamo soprattutto di cosa significhi essere genoano. Parlavamo dei tempi mitici di quella serie C. Tu mi chiedi qual è stata la gioia più grande di me come tifoso, io ti dico la vittoria nel campionato di serie C nel 1970-71. È così per chiunque abbia vissuto la storia del Genoa. La prima partita di quel campionato a Marassi c’erano 42 mila persone, vattelo a vedere! Siamo andati porta a porta a prendere la gente per portarla allo stadio. Più di 40 mila genoani per la prima partita in serie C della nostra storia contro l’Olbia. Questo è il Zena. Questo è quello che ci raccontavamo con Fabrizio. Non gli è andata mai via questa passione: se l’è portata fin dentro la tomba». (Pippo Spagnolo)

Sotto, trasferta anni '80 in Sardegna per la Fossa dei Grifoni

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Patagonia 1942 - da Un Cuore Grande Così il 24/09/2013 @ 17:13

Il Mundial Dimenticato (da: youstreamfilm.altervista.org) La vera incredibile storia dei Mondiali di Patagonia.
Uno scheletro umano ritrovato in mezzo ai dinosauri fossili negli scavi paleontologici di Villa El Chocon, nella Patagonia Argentina. Al suo fianco, una macchina da presa modello anni ’40 ha conservato per quasi sessant’anni un documento di inestimabile valore storico: le riprese della finale del Campionato Mondiale di Calcio giocato in Patagonia nel 1942, a migliaia di chilometri di distanza da un’Europa impegnata a fronteggiare la minaccia del nazismo. Una tappa della storia del calcio mai riconosciuta dagli organi ufficiali dello sport e per decenni rimasta avvolta dal mistero, anche a causa della tremenda alluvione che si abbatté sulla Patagonia il giorno della finale (il 19 dicembre del ’42), provocando il crollo dello stadio i cui resti sono ancora oggi sommersi dall’acqua. Più che un semplice documentario sportivo, il film di Lorenzo Garzella e Filippo Macelloni, già autori brillanti di Rimet – L’incredibile storia della Coppa del Mondo (2010), è un viaggio entusiasmante nel cuore della Patagonia di ieri e di oggi che svela un sentimento agonistico genuino e patriottico ormai sconosciuto al mondo del calcio globalizzato e mercificato di oggi. Un sentimento difeso con orgoglio nazionale e sportivo da 12 squadre rappresentative di altrettanti Paesi, schierate in campo dal delirante e visionario Conte Otz deciso ad organizzare a tutti i costi quei Mondiali di calcio che la guerra in corso fece saltare per 2 edizioni. Tanto che, nel leggendario campionato del 1942 giocato in Patagonia, alle squadre ufficiali dei Paesi in competizione si sostituirono altrettante squadre composte non da giocatori professionisti ma da immigrati. Operai, minatori, ingegneri, militari e pescatori, esiliati e rivoluzionari in fuga, giunti in America del Sud da ogni parte del mondo per costruire un’importante diga in mezzo al deserto. Come racconta Antonio Battilocchi, a sua volta immigrato e giocatore della “Nazionale” azzurra del 1942, al fianco di due soli professionisti ingaggiati con una colletta dalla comunità italiana: Puricelli e Bernini, ovvero il “toro” e il “pavone”. Ma Il Mundial dimenticato è ancora qualcosa di più. Un viaggio indietro nel tempo, nella storia delle nazioni e degli uomini, reso possibile dalle invenzioni di un personaggio eccentrico e straordinario come Guilliermo Sandrini, ex fotografo di matrimoni e cineoperatore di provincia, di origini italiane, con la passione di inventare e sperimentare. Ingaggiato dal Conte Otz per filmare il grande evento, reinterpretando in chiave pacifista e interraziale il lavoro di Leni Riefensthal, regista del regime nazista che con il suo film sui Giochi Olimpici di Berlino del 1936 aveva già rivoluzionato il modo di ritrarre la plasticità del gesto sportivo. Ed è proprio attraverso la figura di Sandrini, cui appartengono i resti ritrovati accanto alla preziosa cinepresa, che il documentario di Garzella e Macelloni si ammanta di fascino e curiosità. Dalle sue invenzioni sorprendentemente intuitive (il “cine-casco”, la “camera fluttuante”, la “trampilla” e la “cine-pelota”), adattate ai movimenti delle partite di calcio, al suo amore forse mai confessato per la fotografa Helena Otz, figlia del Conte e artista dell’avanguardia europea, al centro del triangolo amoroso con il soldato tedesco Klaus Kramer, mandato in Patagonia da Hitler come “infiltrato” ai campionati, e il giocatore Mapuche ricordato come la “tigre” della squadra indigena. Sport, amore e guerra, cinema e invenzione, natura e scienza fanno de Il Mundial dimenticato un piccolo gioiello di documentazione creativa, al confine con il surreale e la leggenda. Ripuntando i riflettori su una storia che ha dell’incredibile.

Sotto, il film completo in lingua polacca con sottotitoli inglesi



Doping - da Un Cuore Grande Così il 24/09/2013 @ 15:11

Campioni senza valore, la piaga del doping da Mennea a Costa (da: sportstory.it).
La piaga del doping è un argomento che negli ultimi anni è salito agli onori delle cronache, ma in realtà ha origini lontane. Lo testimonia il libro di Sandro Donati “Campioni senza valore” edito nel 1989 e subito ritirato dal commercio a causa del suo contenuto compromettente per la federazione di atletica, non solo italiana. Il testo originale è ormai diventato irreperibile.
Donati, tecnico della nazionale di atletica nel settore velocità, racconta con prove e particolari i meccanismi della macchina doping, azionata con l’obiettivo di vincere e portare il lustro sportivo alle federazioni. L’uso di farmaci come anabolizzanti e la tanto discussa autoemotrasfusione, sono state per anni attività praticate giornalmente accanto all’allenamento.
“Chi non è il numero uno o non è in corsa per diventarlo è solo un fallito. Ma è da questa concezione aberrante dello sport che ha tratto linfa vitale la filosofia del doping e degli altri trucchi finalizzati a ottenere l’unico scopo riconosciuto, a qualunque costo”
Il libro è ricco di nomi e personaggi che ruotano attorno all’alterazione chimica delle prestazioni dello sportivo. Su tutti riecheggia il nome di Francesco Conconi, noto medico sportivo. Nel libro l’ex tecnico della Nazionale ricostruisce come in un diario tutti i passaggi che hanno portato anche il Governo a interrogarsi in Parlamento sulla questione doping e sui i rischi, non solo per i professionisti, ma anche per i dilettanti e i giovani educati all’attività sportiva.
“La degenerazione non può essere attribuita solo a un uomo o a pochi uomini. L’atletica impazzita di questi anni ha avuto milioni di tifosi e migliaia di cantori”
Due elementi sconvolgono: l’approssimazione delle ricerche e le morti sospette. Non tutti gli atleti dopati riuscirono a conseguire risultati positivi, anzi per alcuni fu un calvario di controindicazioni. Tra gli altri il caso di Fulvio Costa, morto a 23 anni dopo quattro mesi di agonia. Il 30 maggio 1982 si spense in un letto dell’ ospedale di Vicenza stroncato da una glomerulonefrite, una forma di infezione del sangue che aveva compromesso entrambi i reni. La sua morte, ufficialmente archiviata per “infezione dovuta al morso di un cane”, fu oggetto di indagine pochi anni fa. L’accusa formulata fu omicidio colposo, la causa fu il ricorso all’autoemotrasfusione per fini agonistici.
Donati dedica anche un capitolo a Pietro Mennea, dove ricorda come l’atleta azzurro denunciò in un’intervista rilasciata a Gianni Minà per La Repubblica, di essere ricorso ad una terapia, a base di somatotropina, prescritta dal professor Kerr. Dopo un paio iniezioni, però, capì l’errore e ne fece pubblica ammenda. Il tentativo di sensibilizzazione di Mennea non fu recepito dal grande pubblico e dalla stampa, che nel 1987 continuava ancora a tacere l’evoluzione devastante del doping.
“Mennea, dopo tante denunce pubbliche avanzate in tema di doping, agli occhi di molti aveva perduto, con quelle assurde iniezioni praticate su suggerimento di Kerr, gran parte della sua credibilità”
Donati fu emarginato a causa dei suoi tentativi di denunciare uno status di irregolarità nel mondo dell’atletica. La sua caccia alle streghe lo portò ad una lunga emarginazione, ma il suo coraggio è stato fondamentale per sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema. Solo di recente le sue denunce sono state rilette sotto un’altra luce.
Il libro in rete è scaricabile gratuitamente al seguente link: www.asdplaysport.it campioni senza valore .pdf

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Evvai! - da Un Cuore Grande Così il 22/09/2013 @ 17:05

Immagini di sabato pomeriggio al Pontetto, si premia e si festeggia con i vincitori delle migliori coreografie.

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Una favola a Catanzaro - da Un Cuore Grande Così il 20/09/2013 @ 21:58

(da: uscatanzaro.net) Domenica il Catanzaro giocherà a Lecce con il lutto al braccio. La scelta della società è particolare: rendere omaggio a un tifoso. Sarebbe impossibile farlo a ogni occasione simile. L’eccezione è spiegata da un bellissimo gesto d’amore nel momento più terribile: il crepuscolo di una esistenza. Carlo La Forza aveva 38 anni, due bimbi piccoli e una passione: il Catanzaro. Agli amici, incontrati nelle trasferte più vicine a Milano, ripeteva: «Spero che presto Francesco mi chieda di portarlo con me allo stadio. E spero faccia il tifo per i miei stessi colori». Progetti di vita, speranze, sogni e altro ancora. Tutto spazzato via a giugno, dopo una polmonite e una visita di controllo con sentenza: «Preparatevi al peggio». Forse è stato allora che Carlo ha pensato a un modo per andare oltre la morte, per lasciare qualcosa di concreto a un figlio di soli 3 anni. Con dignità ha combattuto la battaglia, sopportando cicli di chemio e radio. Abbonato in punto di morte. ma ci sono angoli dove nemmeno la malattia più bastarda può arrivare: le passioni sono intoccabili. Quella per il Catanzaro era speciale: lui nato e cresciuto a Napoli aveva scelto di tifare per una squadra lontana. Non aveva cambiato idea neppure quando tutta la città era impazzita per un re argentino. Ma lui a Maradona aveva preferito Massimo Palanca. Dopo la laurea in Ingegneria, il viaggio verso nord in cerca di lavoro: prima Torino, infine Milano. E le domeniche in macchina per inseguire una passione dentro uno stadio. L’ultimo a Prato lo scorso aprile. Due mesi dopo Carlo ha trovato un avversario imbattibile. Forse. Quando ha capito che non c’era nulla da fare, si è rizzato in piedi, lo ha guardato dritto negli occhi e gli ha fatto un tunnel, scavalcandolo. Come? Ha chiamato il club Massimo Palanca: «Voglio abbonarmi, mandatemi tutto a Milano. E fate presto». E quando qualcuno ha provato a capire il perché di quel gesto, si è sentito rispondere: «Voglio l’abbonamento, la ricevuta... voglio tutto perché mio figlio sappia, quando me ne andrò, che suo papà tifava Catanzaro». L’abbonamento è arrivato in tempo: Carlo è volato in cielo poche ore dopo la prima vittoria in campionato della «sua» squadra. Qualcuno spiegherà a Francesco il significato di passione, di tifo vero e non violento. E gli dirà che in una domenica di settembre il Catanzaro aveva il lutto al braccio nel nome di suo padre.

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Concorso "Coreografie cittadine", i vincitori - da Un Cuore Grande Così il 19/09/2013 @ 14:36

Dopo diversi giorni di consultazioni, e dopo quasi 200 immagini prese in considerazione, la giuria composta da Giovanni, Marco, Riccardo, Rita e Silvia ha deliberato quali coreografie, cittadine e non, son state reputate le migliori e quindi le vincitrici del concorso indetto dalla Tifoseria Organizzata che assegna tre casacche rossoblù utilizzate nell’ultimo cappotto inflitto a quelli là e autografate da tutta la squadra.

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Si è spaziato davvero in lungo e in largo e le tre creazioni artistiche, frutto di fantasia, lavoro e cuore rossoblù che sono state scelte hanno davvero soddisfatto tutti i giurati, la speranza è quindi che il giudizio sia poi condiviso dai più.

Vincitore assoluto, forse inarrivabile per quantità di materiale e per qualità dello stesso nonché per il nostro amato Grifone graffiante assoluto protagonista, si è classificato Marco G. alias Mk Unoottonovetre, che in quel di Marassi ha creato quest’opera d’arte.

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Cuore, buona volontà e significato intrinseco, fanno si che anche lo stupendo lavoro messo su all’interno della struttura di cura “Villa Basilea”, completamente imbandierata a festa e con lo striscione MATTI PER IL GENOA in bella evidenza, entri nella top 3 delle nostre preferenze.

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Last but not least, per usare non casualmente una locuzione propriamente inglese, si è rivolto un pensiero ad un Grifone lontano, che quindi purtroppo il Genoa può vederlo solo da km di distanza, che non per questo ha rinunciato a addobbare la propria finestra in quel di Londra, ovvero Marco L.G.

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Finito tutto qui?? Naaa manco per idea.. la giuria, colpita dalla tenerezza degli scatti e facendo leva sulla propria sensibilità animalista, ha pensato di assegnare ulteriormente due premi speciali, consistenti in due magliette Old Block rosa, a due immagini in cui, oltre al “Vecchio Balordo”, i protagonisti sono i due migliori amici dell’uomo: cane e gatto, ecco quindi alla ribalta gli scatti di Stefano G. di Begato e Loredana P. di Quinto.

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Un ringraziamento sentito alla T.O. che ha avuto l'idea e messo a disposizione i premi, a tutti coloro che hanno partecipato e 120 complimenti ciascuno ai vincitori!!!
Oltre naturalmente a un MEGACLAMOROSO FORZA GENOA!!!

Panatta c'è! - da Un Cuore Grande Così il 19/09/2013 @ 08:05

Italia-Argentina, quando Panatta regalò le sue racchette e disse addio. La prossima edizione della Coppa Davis ripropone un match che, nel 1983, segnò il canto del cigno del grande campione azzurro (da: repubblica.it). "Ma guarda che bel movimento ha Panatta alla battuta, sarà un peccato non rivederlo più". Sulle tribune del Foro Italico si sta consumando un doloroso addio. Adriano Panatta, il campione azzurro, gioca per l'ultima volta davanti al suo pubblico, il Foro Italico di Roma. E' un luglio caldissimo, quello del 1983 e in tribuna - c'è tanta gente come sempre quando in campo scende il vincitore di Roma, Parigi e Davis anno di grazia 1976 - si cerca inutilmente di combattere l'afa con improvvisati ventagli e cornetti Algida a go-go. Il match non ha storia. Panatta resta un giocatore sempre bello da vedere per i suoi gesti classici, le volee pennellate, servizio e smash impeccabili, drittone e rovescio in back che rimbalza pochissimo ma ormai, a 33 anni, non ha più la forza e lo spirito per competere con i più forti. E questi quarti di finale di Coppa Davis lo mettono difronte all'Argentina dei super terraioli Guillermo Vilas e Josè Luis Clerc.
Il primo match vede Adriano soccombere con Vilas in maniera piuttosto netta: 6-2, 6-2, 6-1. Curioso: le ultime due partite di Adriano vedranno sempre in campo il mancino di Buenos Aires, il giocatore che Panatta sconfisse nel 1976 in finale proprio a Roma per conquistare il suo primo importante trofeo e prendere un inarrestabile slancio positivo che lo avrebbe portato a trionfare al Roland Garros nella settimana successiva. Ricordi felici. In questa estate 1983, invece, "Willie" Vilas è ancora al top, fisicamente e agonisticamente e Adriano cede puntualmente quando lo scambio, fatalmente, si allunga. Il romano regala qualche delizia, tipo una "veronica", colpo al volo alto sul lato del rovescio, una sorta di elegante schiacciata, ma la partita scivola via in fretta. Clerc, invece, deve sudare cinque set per avere ragione di un Corrado Barazzutti ancora tostissimo. Dopo la prima giornata siamo 0 a 2. Il confronto è segnato ma c'è la speranza di fare bene nel doppio. Dove Adriano dividerà il campo col compagno di sempre "bracciod'oro" Paolo Bertolucci.
Panatta-Bertolucci contro Vilas-Clerc (che tra l'altro non si amano affatto e giocano in coppia solo per ragioni di Davis). E' questo l'ultimo atto di una carriera fantastica per vittorie e sconfitte (epiche anche queste, particolari, intense proprio come i successi) di Adriano. Che gioca con orgoglio e classe e, strappa applausi agli spalti che sanno di assistere a una esibizione che non avrà più repliche. "Che volee di rovescio, dai, questi colpi gli argentini se li sognano, tirano solo quelle mazzate arrotate", si sente dire in romanesco dal pubblico a ogni vincente di Panatta. Ma quelle mazzate, potenti e regolari, quei passanti in top, hanno, infine, la meglio. La coppia azzurra si arrende con onore per 7-5, 6-3, 6-4. E chiude tra gli applausi, romantici e struggenti di chi sa che una bella storia si è chiusa e all'orizzonte non si vede nulla o quasi.
Il turno di Davis è andato, i sudamericani conducono per 3 a 0 (finirà 5 a 0) e gli ultimi due match si giocheranno solo perchè sono stati venduti numerosi abbonamenti che prevedono anche gli incontri della terza giornata. Adriano non ci sarà. Chiude lì. Ha deciso. Lasciando il Foro Italico incontra un ragazzino che gli corre incontro per strappare un cimelio: va tutto bene per lui, da un polsino a una maglietta. Panatta ha il suo fascio di racchette sotto al braccio e il giovane la butta lì: "Adrià me ne regali una? Una sola, dai...". Il campione azzurro lo sorprende: "Senti, te le regalo tutte, te le regalo, tanto a me non mi servono più". E consegna le sue Wip all'incredulo teen-ager. L'ultima "veronica" dell'imprevedibile Adriano.

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Razzismo - da Un Cuore Grande Così il 17/09/2013 @ 21:26

Cori razzisti, chiusa la curva dell'Inter. Lo ha deciso il giudice sportivo dopo i cori contro alcuni giocatori della Juve. La squalifica riguarda il secondo anello verde del Meazza. La sanzione sarà scontata in occasione della sfida con la Fiorentina del 26 settembre.
MILANO - Il giudice sportivo ha disposto la chiusura di una parte della curva dell'Inter nella prossima gara casalinga dei nerazzurri. Il provvedimento, che riguarderà il 'secondo anello verde', è legato ai cori razzisti intonati durante il match Inter-Juventus di sabato scorso. Il settore sarà vuoto quindi nella gara Inter-Fiorentina, in programma il 26 settembre. La società nerazzurra è stata condannata al pagamento di un'ammenda di 15.000 euro. Il giudice sportivo spiega che "alcuni suoi (dell'Inter, ndr) sostenitori, collocati nel settore dello stadio 'secondo anello della curva nord'" hanno"rivolto a due calciatori della squadra avversaria , al 15° del primo tempo, al 10° ed al 15° del secondo tempo, grida e cori espressivi di discriminazione razziale". Nello stesso match, inoltre, alcuni sostenitori hanno "indirizzato reiteratamente un fascio di luce-laser verso l'Arbitro e verso calciatori della squadra avversaria, nonostante l'invito ripetutamente radio-diffuso a desistere da tale riprovevole comportamento". Nel corso dell'intervallo, poi, è stati "esposto uno striscione dal contenuto insultante nei confronti dell'allenatore della squadra avversaria".

Sotto, Anfield nel 1912

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Super vintage per ingannare l'attesa... - da Un Cuore Grande Così il 15/09/2013 @ 11:56

(da: lacrimediiborghetti.com) "Un pomeriggio allo Zini", di Andrea Cisi. Dopo il grande successo di Roberto Bolaño, prosegue l'incursione di Lacrime di Borghetti nella letteratura calcistica di qualità con uno dei racconti più divertenti mai ambientati in un curva - in questo caso, la Sud dello Zini di Cremona. Quella che segue è la prima parte (sabato uscirà la seconda) di "Un pomeriggio allo Zini", magistrale racconto di Andrea Cisi apparso nell'antologia "Ogni maledetta domenica. Otto storie di calcio", pubblicata nel 2010 da Minimum Fax e curata da Alessandro Leogrande. La classica domenica da stadio grigiorossa (ma così simile a così tanti altri colori), popolata da gente bizzarra, caffè Borghetti, cori poco comprensibili e misteriose apparizioni del mito Alviero Chiorri; e anche, per noi, un modo per rendere omaggio alla Cremonese, una squadra che ha segnato la nostra infanzia (chi non ha sognato i capelli alla Dezotti?) e di cui da troppo tempo non abbiamo notizie. Buona lettura, non prima però di aver ringraziato sentitamente per averci concesso i diritti e per la collaborazione sia gli amici di Minimum Fax, in particolare la fantastica Lorenza Pieri, che la Berla & Griffini Rights Agency.

"Un pomeriggio allo Zini" (prima parte).
Cremona è inghiottita da una nebbia densa e odorante di pioggia.
Mi muovo sicuro per le strade acciottolate del centro in direzione Foro Boario, la sciarpa legata al collo sotto il bavero, bene attento a evitare i posti di blocco dei vigili, anche se sono in bici. È primo pomeriggio ancora, ma il borgo è sulla sponda sinistra del Po, sotto corrente, tempo che finisce la partita la nebbia non se n’è andata, sicuro come l’oro.
Oggi dalle paludose risaie piemontesi, sempre se trovan la strada, arriva il Novara a battagliare per la serie B. Il piazzale del Foro Boario è un muro grigio di foschia, lo Zini vi appare dentro a macchie, come una visione onirica un po’ confusa.
Rebecchi e io ci troviamo alle biglietterie della Sud.
«Oh...», lo saluto.
«Oh...», mi saluta lui.
«Com’è?», chiedo.
«Come cazzo vuoi che sia?»
Rebecchi è edicolante, lavora sei giorni e mezzo su sette, dalle 6 alle 19.45. D’inverno gela anche con la stufetta, d’estate gli si scioglie la faccia dal caldo, nel gabbiotto. Una notte gli han pitturato dei cazzi arancioni sulla serranda con scritto «sfogliami questi edikolante di merda» e c’è un vigile incagnito che da due anni gli sfonda i testicoli perché parcheggia lo scùter portagiornali sul marciapiede. Vuol vendere l’edicola ma non ci riesce.
«È bello vendere giornali?», gli ho chiesto una volta.
«No», ha detto. «Son diventato ultras per colpa dell’edicola, mica per fede».
Sì, perché l’ultras è un animale che a volte nasce per implosione nervosa.
Alle casse io faccio la coda e prendo il biglietto. Rebecchi ha l’abbonamento, perché l’ultras ha l’abbonamento, a volte deve seguire i ragazzi in trasferta.
Domenica scorsa è andato a Pavia, match d’alta classifica, c’era ancora la neve raccolta a bordocampo. È partito con uno dei pullman del coordinamento insieme al Macellaio e a Sabani. Il Macellaio lavora all’Esselunga, Sabani si chiama così perché fa le imitazioni, di solito le fa male. Fa soprattutto cartoni animati e parenti, parenti suoi.
«A Pavia ha imitato sua mamma», fa Rebecchi ridacchiando, «uno spasso...»
Cremona-Pavia son quaranta minuti di strada. I pullman degli ultras, domenica, son partiti quattro ore prima.
«Noi ultras, lo sai bene», spiega, «anche per un’ora di strada dobbiam comunque ubriacarci e fumare, fermarci a pisciare e cagare e vomitare dappertutto, due soste al Grill, ingurgitare un Camogli una birra e un Concertino, lasciare i segni sui muri dei sottopassi con lo spray, rubare si deve, rubare...sennò che ultras di merda siamo?»
«Avete fatto bene, avete fatto», dico sincero.
Mi chiama al cellu Popoìto l’Etrusco, dice che ci vediamo dentro, nebbia permettendo, che se riesce mi porta il phon che gli ho prestato ieri al calcetto.
«In curva me lo porti?», polemizzo.
«Sì, tanto alla perquisa riesco a portarlo dentro, basta che butto gli accendini».
L’accendino in effetti è sempre l’unico snodo cruciale.
Entrando incrociamo Marrachèsc, un ragazzo marocchino che lavora con me alla fabbrica, c’è tutto il suo clan intorno a lui, tutti giovani, alti e magri, color muschio, tutti cugini, facce da galera, pizzaioli e piastrellisti, tifosi grigio rossi di brutto. Ci abbracciamo.
Lo sbirro appostato dietro il tornello valuta me e loro, quindi si concentra truce su di me. È meridionale, cattivo, in assetto, sigaretta marrone in bocca, visiera, manganello e spray.
Clint Eastwood.
«T’hanno già fatto?», digrigna violento.
Faccio di sì con la testa, automa.
Mi fa passare senza toccarmi. A saperlo portavo dentro cento chili di tritolo, così per il gusto di provarci.
All’edicolante Rebecchi invece gli fan rivoltare anche le asole dei bottoni, sarà la sua aria da bravo ragazzo che non convince. Gli trovano sette accendini, uno ce l’aveva in bocca, glieli fan buttare. Lui ne aveva otto, l’ultimo non gliel’hanno visto, ce l’aveva stretto in mano.
«È sempre più dura fregarli», mi fa.
«Non fumi neanche».
«Lo tiro».
Dentro l’atmosfera è miracolosa, non c’è un filo di nebbia,da curva a curva è tutto nitido. Lo Zini è una perla luminescente in fondo al mare scuro.
C’è il solito caos umano, gente che va di qua, gente che va di là, chi sale, chi scende, piumini, torsi nudi, occhiali da sole, sciarpe di lana per i rognosi, sciarpe di raso per i fighetti, tatuaggi, profumo di ganja, volantini ombrelli birre nei bicchieri di plastica giornali borsine maniche fatte su e una calura congenita che ristagna sotto l’apparente frescura, un’afa che sale dal cemento, anni di pelle sudata e culi seduti che mantengono torrida la temperatura di questo microambiente con qualsiasi stagione.
Ci sistemiamo, posizione centrale, sopra il nucleo ultras, raggiungendo Sabani e il Macellaio che stanno già parlando di cose serie, la figa e le bistecche di scamone. Sabani sta imitando il cuoco Marrabbio, papà di Kiss me Licia. In tre lì intorno ridacchiano.
Il panorama è sempre quello, bello colorato a tinte forti, il cielo grigio di nebbia che non scende, il manto verdissimo che ci fa onore, i raccattapalle minorenni in casacchina rossa che palleggiano, i fotografi con la pettorina gialla, il fallo di plastica rosa enorme con su scritto «ciao mamma» che un tifoso sventaglia allegro. Le maglie dei nostri son belle grigiorosse, stan da dio sul verde, quelle blu elettrico del Novara invece sono un po’ troppo psichedeliche. La Sud è pienotta, il rettilineo dei Distinti si sta riempiendo piano piano, la tribuna coperta si riempirà cinque minuti prima del fischio, la curva Nord invece è completamente deserta.
«Se non hanno il satellitare...», dice l’Orlando dubbioso.
Con l’Orlando c’è la Samànta. Lui è un ex sindacalista Cisl-Fim, nonché ex tossico delle casermone popolari del Borgo Loreto, uno che ancora s’infiamma per nulla, che porta molti anelli di bigiotteria e la cui età va sui quaranta ma non è certa sotto la pelle rugosa. Lei vive di Cremo, smalto per le unghie e musica melodica. Si son conosciuti da piccoli in colonia a Torre Pedrera, son sempre rimasti insieme nonostante il passato burrascoso di lui.
Ci raggiunge anche Maschio, col suo passo da carrarmato e quella barba e quei capelli da cavernicolo piantagrane. Una quercia con gli occhi.
«Oh...», ci saluta.
«Oh...», rispondiamo tutti.
«Com’è?», gli butto lì.
«Alla cazzo», fa nervoso. Ha la sciarpa legata al polso e stringe le labbra.
«La Daria?», chiedo.
«La stronza? Tre mesi ormai che sta dai suoi...»
«E la bimba?»
«La bimba sta con lei».
Resto zitto, a corto di risposte. Gli altri ascoltano in silenzio pure loro, hanno con lui meno confidenza di me, e Maschio è uno che è meglio non fare alterare.
«Qualcosa dovevate pur fare», azzardo, «erano più le volte che vi mettevate le mani addosso che quelle in cui andavate d’accordo».
Maschio non risponde, abbassa gli occhi sul terreno di gioco. Manovra carriponte al tubificio, un lavoro da cazzuti. Se c’è da spaccare acciaio a colpi di mazza lui è il primo, sgobbare non lo spaventa, ma parlare della sua bambina che non vede più troppo spesso lo spegne.
Lasciam cadere la cosa e torniamo a guardarci intorno. Vedo tutta la ciurma dei compagni del calcio amatoriale, ex compagni di scuola, colleghi di lavoro e i soliti affezionati, il Villetta Grùp e la loro aria brigante, il taciturno Vusamìa (non gridare!) arroccato nel suo «clan Castelleone», il tizio detto BusNavetta perché guida i pullman, il Morobiondo, i fasci inquietanti del ROV e uno che chiamano Chìcula (piccolo cappero da narice), che a volte prendono a sberle sul coppino ma solo gli amici intimi possono, se lo fai te ti prendono in venti e ti spaccano di botte. Individuo anche Popoìto con basette etrusche e birretta in mano, il valchirio Adès-Adès (OraOra) e Flo, il «liutaio albino», mentre giù alle ringhiere la Uoma, un curioso incrocio tra un ultras e una donna, sta strangolando con la sciarpa invernale di lana un vecchio inerme. Pare sia il suo papà.
C’è pure un sacco di sbarbatelli con le sciarpette di raso, tutti presi bene, pettinati con la piastra. Ce ne sono quattro in fila di fianco a noi. Uno magrino e alto sui dodici anni sputa in terra come un cammello, il più basso e vicino a noi invece ne avrà quattordici, ha i baffi da ometto, la panza da camionista e una Coca-Cola in mano, ci fa le bolle dentro. Son teneri da vedere, se li guardi due volte però si fanno minacciosi.
«Quando noi avevamo la loro età in panca c’era Mondonico...», s’immalinconisce Sabani facendo la voce di Calimero.
«Eh...», geme il Macellaio, «...davanti avevi Alviero e Nicoletti, mica Campolonghi e La Cagnina come oggi».
Solo a sentir nominare Alviero Chiorri tutti gli ultras intorno a noi si fanno devoti un segno della croce, uno sbaglia lo fa al contrario, un altro dopo bestemmia, un terzo dice anche amen.
Poi sento l’urlo di un megafono, giù nel «nucleo».
Quindi lo vedo.
Töna!
Un soprannome che non vuol dire assolutamente nulla.
È lui, è rientrato nei ranghi! La sua sciarpa avvolta fino alle labbra, la sua pelle di un roseo provato dalle ingiustizie della vita di provincia, la sua vaga somiglianza a Max Pezzali ma più bello. Il ritorno della leggenda, il maestro di tutti i capi ultras, il dio dell’entusiasmo da spalto, l’uomo della scissione. Della sua vita privata nulla trapela, la sua vera identità è un mistero per il borgo, chi dice faccia il gelataio, chi il dog-sitter per danarosi, chi invece sia uno scrittore affermato e abbia localini sulle spiagge di tutto il mondo. Oggi rientra in seno alla famiglia. A mesi dalle incomprensioni interne tra fazioni grigiorosse, oggi finalmente c’è il ritorno del condottiero.
«La senti l’agitazione dei gladiatori maschi della curva?», chiedo all’Orlando.
«Sì».
«Lo senti l’ormone che viaggia come un fiume in piena?»
«Sì, m’innervosisce».
«È la presenza magnetica di Töna!»
«No», fa lui, «mi sa che in tribuna c’è Luisa Corna...»
Tutti a spingersi come bestie ai recinti per guardare verso la tribuna coperta, dove di solito si sistemano i siùri locali e gli ospiti di riguardo. Della Corna nemmeno l’ombra dei capelli. «Potrebbe essere quella là di spalle», azzarda Maschio, «quella in bianco...»
«Quella là è mio zio Oreste», dice uno dei quattro sbarbatelli, con l’apparecchio in bocca.
Restiamo così, un po’ tutti pensierosi.
«Tuo zio Oreste ha un bel culo», commenta poi diretto Sabani.
L’ometto diventa tutto rosso.
La Samànta telefona intanto a un tipo per sapere se le ha masterizzato il cd di Tiziano Ferro. Sorride, annuisce e mette giù.
«Io mi inchino, a Tiziano...», mi fa poi cerbiatta, per giustificarsi.
Ha gli occhi color discarica, come il suo smalto per le unghie.
«Chissà come si gioca?», ci si chiede. «Chissà se mister Roselli usa lo schema “ad abete” del Milan?... chissà quanti gol prende il Grosseto in Liguria?... chissà se ho le ferie per andare ad Amsterdam a chiavare le russe in vetrina, come l’anno scorso?» Le domande che girano in curva, tra i tifosi,
son sempre più articolate.
Un gruppetto sparuto di quarantenni vestiti bene uguali, tipo bancari, inizia subito a insultare arbitro e carabinieri. I «sergenti» di Töna, con classe, intimano loro il silenzio, minacciandoli col segno della gola tagliata. I bancari smettono subito.
Giunge il momento della coreografia, la voce di Töna inizia a tuonare, chiama gli schemi sugli spalti, mentre lo speaker dà le formazioni in campo, da cui apprendiamo che anche oggi il bomber Gioacchino Prisciandaro è in panca, reduce da un infortunio.
Töna è già cattivo al punto giusto, pretende sbattimento dalla curva, pretende voglia. Nessuno però ha ancora neanche per le balle di cantare.
Töna guarda la Sud dal basso in alto, da destra a sinistra, sconcertato.
«CHI NON CANTA DA LEONE», urla bestiale, «GLI VIENE IL CAGONE!»
Tutti a cantare a squarciagola, chi i cori da stadio e chi pezzi a caso, uno anche «Se bruciasse la città» di Ranieri, applaudita a furor di popolo.
Poi i sergenti invocano il silenzio di tomba con dei ssshh…ssshh! che presto dilagano nel mucchio della Sud come un virus, si propagano all’infinito e obbligano i più fragili, tra cui il Macellaio, a una fuga disonorevole giù ai cessi.
«Mi ricorda il rumore dell’olio azzurro che scivola a terra dai cavi dei carroponte, di notte, quando prendi a mazzate il coil...», commenta Maschio con occhi assenti, «...come se l’acciaio sanguinasse...»
Pelle d’oca da timore a tutti i presenti.
Coreografia: bandierone grigiorosso con sopra lo stemma per i 102 anni di vita della società a coprire la Sud intera, sotto tutti noi zitti e nascosti con le sciarpe spiegate e le bandiere svolazzanti, celati a far finta che non ci siamo e invece ci siamo.
«Stiamo sotto il bandierone», penso, «come Cremona sta nella nebbia. Sepolti...»
Si inizia a tirare giù il pesante bandierone a colpi di dita levate, gridando un crescente «oooooooo...» di massa. Un tizio zoppo su in alto sbaglia i tempi e prende a cantare in anticipo: «Squadròoon, squadròoon, squadrone uno solooo...»
Töna lo fa prendere da due dervisci glabri, muscolosi e tatuati e scaraventare giù dallo spalto più alto, sul retro. Scompare nella foschia ma sentiamo il ciocco tipo melone maturo sul cemento del parcheggio.
La curva ammutolisce.
Ma è un attimo. Si riprende urlando e cantando a ritmo, quando tiriamo giù del tutto il bandierone la partita è cominciata, ci dimentichiamo invasati del corpo e delle sirene di ambulanza giù dabbasso e sventoliamo le sciarpe, le stiamo sventolando in dieci, mi vergogno anche di farlo, dopo un po’.
Grigiorossa la Cremo, blu elettrico il Novara. Il nostro portierone Mondini si distingue, un arancione-nero che stona, sembra un elettrauto.
Mi concentro sul gioco, ma dietro di noi passa la Uoma. Si ferma, con la mano scruta l’orizzonte della curva, cerca qualcuno di nome MaDài. Si domanda a voce alta dove sia quel gran bastardo, ma in modo molto meno fine. Quando se ne va torno al gioco, ma la voce di Töna è un martello che non si può ignorare.
«Dai rega, oh!», grida selvaggio. «Fuori la voceee, oooh! Dobbiamo andare in serie B (bestemmia)! Dobbiamo metterci la voglia, dobbiamo gridare (bestemmia)! Dai, oooh!»
La partita ha già il binario giusto, tanti recuperati in campo per noi, compreso il redivivo Benin che giostra a metà campo.
«Chi è quello là?», chiede una tipa tosta smanicata a un tipo moscio occhialuto.
«Benin».
«Benigni?»
«Benin, bestia!», urla lui sistemandosi la montatura sul setto. Nasce una piccola rissa localizzata, lei gli strappa le lenti e punta dritto agli occhi, avrà la meglio di brutto.
La Cremo, con Priscia in panca, parte davanti con la solita coppia di capelluti, Campolonghi e Taddei, la cieca potenza e l’imprevedibile estro.
L’edicolante Rebecchi ricorda nostalgico al gruppo il gol che segnò Alviero su punizione al Messina, anni fa, in serie B, alzatosi dalla panca proprio per tirare il calcio piazzato. Un sette preciso preciso, con quel sinistro velenoso dal calzettone abbassato sotto il polpaccio. Preghiera ultras di gruppo in fervente devozione.
Il Macellaio per non sfigurare ricorda allora commosso anche il bellissimo weekend a mignotte sul parmense con Sabani, che per tutta risposta fa l’imitazione di Buzzanca nel Merlo maschio. Poi ridono, solo loro due.
Vedo l’Orlando incupirsi, fissare qualcuno metri e metri sulla nostra sinistra. Mi dà di gomito.
«Oh, ma quello là?», mi fa, indicando un ricciolone abbronzato di profilo.
Guardo bene. Diavoli, pare davvero Chiorri. I capelli, la postura. In Sud... tra gli ultras!
«Se non è lui è Sandy Marton», faccio carico.
«Impossibile», ci smonta Rebecchi. «Che so io, Alviero vive a Cuba da anni».
Titubanti lasciamo perdere, l’edicolante è la saggezza della curva, se queste cose non le sa lui che legge...
Sotto, su una predella di legno, immerso tra megafoni, microfoni e amplificatori, aggrappato all’asta di un bandierone con su un teschio con uno spinello tra i denti, tipo pennone di nave pirata, Töna è in forma strepitosa. Si muove col suo megafono come Achab nella tempesta. Gira voce che il mitico sia arrivato in scùter digrignando i denti e con occhialoni da aviatore crucco, con addosso bombe a mano finte, in spalla cartelloni con su cessi disegnati, tra le gambe stelle filanti color Novara da bruciare, in tasca scritte e quant’altro, ma che accortosi poi dell’assoluta nudità della curva ospite abbia pianto come un bimbo. Tifosi novaresi zero, nemmeno uno. Dalle strade piemontesi nessuna automobile, nessun pullman, dagli sterrati nessun camper. Dalle risaie nessuna piroga.
Töna allora si è seduto, le mani in faccia, poi ha deciso che ci voleva un capro espiatorio, qualcuno con cui sfogarsi, i pulotti basta, non fan più notizia, ci voleva un nome nuovo.
La sorte ha voluto che il portiere avversario, tal Franzese, cominciasse nella porta sotto la Sud.
Se l’è presa con lui.
«Franceeeeseee», ha iniziato fetido col megafonino, «ci sentiii?»
Un tipo basso con la sciarpa dei RedGrey Supporters e con un brufolo grasso nell’occhio ha fatto timidamente notare al dio della Sud che il nome corretto era Franzese.
Töna stizzito l’ha fatto prendere dai due dervisci e buttare nella grotta tossica dei giardini pubblici di piazza Roma.
La curva muta ha potuto udire portati dalla nebbia i lamenti del malcapitato in balia delle unghie zozze dei derelitti del piazzale.
«Seppelliranno i suoi resti sotto l’altalena...», ricorda nostalgico l’Orlando.
«Franceeeeseee», ha ripetuto Töna, «ci sentiii?»
Franzese si è voltato di sghembo.
«FIGLIODIPUTTÀAAAAANAAA!», gli ha urlato la Sud all’unisono.
Il portierone ha scosso il capo, deluso dalla maleducazione del tifoso cremonese medio, evidentemente s’aspettava dei ragazzini tutti a modo.
«Franceeeeseee», ha ripetuto Töna ipnotico, «ci sentiii?», e ogni volta era un insulto al povero numero uno.
Il portiere non l’ha capito che si trattava di un gioco, che la curva lo mandava a quel paese ma per divertimento, che gli insultavamo madre e sorella ma in amicizia, che gli si augurava la morte violenta ma con cuore fraterno, non l’ha mica capita.
Si è offeso.
Restando di spalle tra i pali ha alzato il dito medio guantato.
La curva ha smesso di amarlo e ha iniziato a ferirlo con cattiveria, inducendolo a giocare il primo tempo dieci metri fuori dall’area piccola: l’oggetto meno strambo piombato in porta erano i jeans Avirex smunti di un ultras detto Petèra (cavallo basso del pantalone), con dentro ancora portafogli e chiavi di casa. Petèra è rimasto in curva con gli anfibi e il costume da bagno aderente dell’Arena, anche quello a vita bassa.

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"Un pomeriggio allo Zini", di Andrea Cisi (seconda parte).

Tre gradini sotto di noi un tizio di colore bello come un modello e detto Testa di Moro si volta, guarda Sabani e gli urla che gli deve ancora dei soldi e che gli spaccherà il fondoschiena, poi scompare nella mucchia con le mani nelle saccocce. Sabani inizia a sudare.
«È il suo spaccino...», precisa il Macellaio, ma non dice di cosa.
Per distrarci valutiamo e commentiamo la formazione di oggi dopo i primi minuti di gioco, spronati dalla disperazione suicida di un ciccione vestito di nero Iron Maiden che lamenta l’assenza del bomber e implora lo schieramento di La Cagnina.
«Ci vuole La Cagna!», urla rivolto alla lontana panchina, le mani nei capelli unti. «La Cagna ci vuole!»
«Ma dàaaai...», s’inserisce polemico un lungagnone dalla faccia di ramarro, «...La Cagna è un disastro!»
Nasce una nuova microrissa localizzata, col lungagnone che affonda le dita nella ciccia di Iron Maiden come manovrasse un gavettone molle.
Comunque davanti La Cagna non c’è. E meno male, che ultimamente prende più pali che caffè. C’è Campolonghi, invece, e Taddei dietro e Rossini in fascia, tre capelloni. Da lontano sembran tre fotomodelli, solo che Taddei è nano. Gli altri due han la fascetta ai capelli, a guardarli vien fastidio.
«A me han detto che Alviero si era dato al paracadutismo però», insiste l’Orlando, guardando ancora il ricciolone dalla pelle bruciata di sole. «Si lanciava qui in periferia, al Migliaro».
Tutti di nuovo a scrutare il tizio con interesse.
«Bah», fa Rebecchi, «buttarsi si buttava, però mi sa non era paracadutismo, mi sa era più tipo suicidio, qualcosa del genere. Era matto, se non era matto non veniva via da Genova per venir qui in provincia a fare l’idolo».
Muti e curiosi osserviamo ogni respiro del ricciolone, prima di tornare al gioco, mentre la Samànta indifferente fa il pallone con le cinque Vigorsol che ha in bocca e lo fa scoppiare con un plop accattivante.
«Figa, ce ne sta di roba lì dentro, eh?», le urla un borchiato baffuto sei gradoni sopra di noi che poi ride grasso coi suoi amici.
All’Orlando gli va subito a mucchio il cervello, sale furioso i gradoni, tre per volta, spostando la gente. Scompare nel gruppo di provocatori e si vedono le mani con gli anelli che mulinano di brutto. Maschio lo segue senza pensare, si butta in mezzo. I borchiati vengono massaggiati per bene, un po’ le prendono un po’ le danno, ma i sergenti di Töna salgono lesti a sedare ogni malinteso residuo.
Noi, avvezzi a queste scene moderate, si torna a guardar giù. Sembra si giochi bene, oggi. La figura pessima di domenica scorsa a Pavia potrebbe non ripetersi. I capelluti davanti corrono molto e si trovano, Taddei è funambolico, Rossini spinge e Campolonghi punge come un ago avvelenato.
La difesa è una garanzia, Iorio e Bertoni sono due colonne e l’assenza del pelato Mario Donadoni non si sente.
«Gran fisico però Donadoni...», fa la Samànta tutta calda, ma torna l’Orlando con in faccia i segni della rissa e la limona di brutto. Lei toglie le Vigorsol e ci sta, poi le rimette in bocca e fa il pallone.
Torna anche Maschio, ha un orecchio piegato come i cani legnati e due borchie in mano, le tira con rabbia a un fotografo a bordocampo.
In mezzo al campo il canuto Strada è regolarissimo e Furiani mostra grande sicurezza e buona tecnica, ma il Novara è davvero poca cosa, vede l’area grigiorossa solo col binocolo.
A un certo punto Bertoni riceve un colpo, crolla al suolo, ci resta agonizzante. Giaccanera non ammonisce il novarese cattivo e la folla inferocita gli grida: «Gnurànt!» (zoticone), mentre l’Orlando, ancora infuriato, si strappa altezza tasche i jeans a mani nude e la Samànta al telefono col solito tizio gli chiede se ha anche i Sonohra e l’ultimo degli Zeroassoluto.
«Io», mi fa tenera, «ai Sonohra mi inchino».
«E agli Zeroassoluto?», chiedo guardandola.
Sbam! Gol di Iorio!
Almeno pare, perché io ero girato...
Spalti in fiamme! Delirio!
«Com’è stato?», chiedo al Macellaio.
«Stavo telefonando alla Svetlana...», fa lui affranto.
«Com’è stato?», chiedo a Rebecchi.
«Stavo cercando una Gazzetta in terra da mettermi sotto il culo!»
«COM’È STATO?», grido a Sabani.
«Ero seduto per nascondermi da Testa di Moro!»
Nessuno l’ha visto! Robe da non credere. È che in Sud bene o male hai da fare dell’altro, che non sia seguire il gioco. A volte ti perdi il bello che c’è.
La folla comunque esplode, la curva da curva si fa dritta, il Villetta Grùp si spacca sulla testa lattine di Foster’s da 50 cl piene portate dentro pare da un cane poliziotto doppiogiochista addestrato nel quartiere Villetta, la frangia Castelleonese viene su, il ramo Casalmaggiore va giù, il ROV si strappa le magliette mostrando cicatrici e bruciature di mozziconi e Töna cade preda del misticismo e inneggia al gran gol.
E io me lo sono perso!
Inferocito fisso la Samànta.
«Agli Zeroassoluto sì», fa candida, «io m’inchino».
«Adès busoògna usaà! Adès!» (ora bisogna far sentire la voce, ora), grida il valchirio AdèsAdès senza bisogno di megafono, mentre sopra di noi transita Bodini, capotecnico della S.M.M. Impianti, ditta che produce trapani a colonna di altissima precisione. Anni fa giocavamo assieme negli amatori. È un nano che se ti prende tra le braccia ti spezza come un ramoscello, i muscoli litigano con la maglietta, sta ancora esultando come se il gol l’avesse fatto lui.
Mi vede, alza il pugno e grida carico come un missile. Ci raggiunge scavalcando gradoni e pestacchiando qua e là giovani ultras coricati in terra.
«Oh Bodo», saluto. «Com’è?»
«Tutto bene», urla ancora, sgomitando Sabani e appicciando una MS, «siamo chiusi!»
«Come chiusi?»
Annuisce mesto alzando un sopracciglio. «Cassa integrazione», spiega, «così di colpo il lavoro è sparito. Strategia mi sa, perché i padroni invece son sempre in giro per il mondo».
L’Orlando s’infiamma di nuovo, era pur sempre un sindacalista. Per consolarsi tira un altro giro di limone alla sua Samantona, fanno un rumore di risucchio tipo gorgo nel lavandino che io e Bodo tratteniamo un brivido perverso di piacere.
«Ci sto dentro alla grande», sorride Bodo, «prendo l’ottanta per cento per stare a casa e intanto lavoro in un bar al mio paese, a fine mese metto via due volte quel che mettevo via prima e ho le mattine libere!»
Saluta e se ne va.
Penso confuso alla fabbrica dove lavoro e ai giorni che verranno. Meno male che la selva umana della Sud è uno spettacolo folcloristico. Mi guardo un po’ attorno, c’è tutta la società cittadina fianco a fianco, padroni e operai, impiegati, spedizionieri, bancari, tossici, studenti e fancazzisti, gente che sta bene e gente che sta male. C’è di tutto, qui dentro. Ogni curva Sud del mondo è un microcosmo di inimmaginabile valore scientifico.
Anche la Nord però, alla fin fine, ci regala emozioni.
Nel deserto novarese delle gradinate color cemento bagnato, verso la fine del primo tempo, appaiono tre tifosi: un Indeciso, un Copione e un Uomo Camaleonte. I primi due in bianco, il terzo colore degli spalti. Osservo per un poco i loro movimenti, mentre Rebecchi dice che l’ometto accanto a noi, il quattordicenne coi baffetti, sta ascoltando la sua Coca-Cola con l’orecchio.
«Cosa fa il Mestre?», scherza, ma quello si spaventa e non risponde.
In Nord l’Indeciso va su e giù, piano piano, cammina sui gradoni, cerca la posizione in cui mettersi in quel deserto, ogni tanto si siede, estrae un giornale e lo legge, poi si alza e cambia posto. Copione aspetta che Indeciso si sposti, subito dopo lo copia. Si sposta anche lui uguale, lento uguale, quando quello legge lui finge di leggere.
«Oh ma cosa succede di là?», si chiede tra sé Töna a microfono aperto. «Oh, ma guarda quei due esauriti bianchi là, oh, il matto e l’infermiere, oh!»
Nessuno ride.
Töna guarda serio la curva.
Tutti ridono.
L’Uomo Camaleonte intanto è scomparso. Ma se guardo bene vedo il suo tronco, solo quello però, i pantaloni son dello stesso colore nebbia del cemento bagnato dei gradoni, svaniscono.
La Samànta, nel tripudio infernale di cori, chiede al telefono al solito tizio se le procura i biglietti per il concerto milanese di Eros. Mi volto verso di lei.
«Eros?», chiedo polemico.
Sbam! Gol di Manucci!
Lo stadio vacilla, la gente limona a caso, ci si fidanza, si squarciano ugole a forza di gridare per il bellissimo gol di Manucci.
E ANCHE QUESTO ME LO SONO PERSO!
Mi copro il volto con le mani. La Samànta mi mette una mano sulla spalla.
«Inchiniamoci», mi dice, «inchiniamoci al mitico Eros!»
La curva traballa. I giovani scapestrati del Collettivo Radioattivo aprono bustine con dentro coriandolini dai mille colori, qualcuno lo lanciano nel cielo, qualcuno lo mettono sotto la lingua; il Villetta Grùp prende un vecchio a caso, lo alzano e gli fan fare Goldrake su e giù dai gradoni tra la folla, si sente scricchiolio di femore incrinato e odore di svuotamento posteriore da tensione, poi si rompono e lo scaraventano oltre la recinzione, dietro i cartelloni pubblicitari in campo, dove i poliziotti lo salvano dai cani per un pelo.
Il povero Franzese viene seppellito di saracche da un Töna ispirato, mentre la Sud intera balla la tarantella e devota gli canta: «Su tua mamma noi saltiamo su tua mamma noi saltiaaamooo...»
Piiiiip. Fine primo tempo, partita dominata, tutto sembra funzionare per il meglio. Nell’intervallo gli ultras ne approfittano per distrarsi giocando a «Re-Boia», un curioso intrattenimento in base al quale schiccherando un pacchetto di sigarette vuoto sul bordo del gradone, a seconda di come ricade tu sei Re, Schiavo o Boia. Lo scopo è darsi un sacco di sberle a vicenda per ridere un po’, qualcuno fa anche il carrarmato sulle nocche o la tortura della matita tra le falangi da schiacciare. Si diverton come pazzi, gli ultras, un paio finiscono diretti in ortopedia.
La Uoma intanto chiama ancora a gran voce questo
MaDài usando complimenti degni di un anticristo. Sabani e
il Macellaio rivelano invece che il prossimo weekend andranno
a Milano Marittima.
«’Zzo andate a fare lì invece di essere a sostenere i ragazzi nella trasferta di Frosinone?», chiedo.
«Andiamo a far tavolo al Pineta!», fa Sabani.
«Con le russe!», precisa il Macellaio.«Svetlana aspettaci!»
Passa il Microlavorante, un mulettista magazziniere lungo un metro e mezzo, mi racconta della trasferta a Sassari tre settimane fa, erano in cinquantacinque sul traghetto e in quaranta han vomitato per il mare mosso. «Vomito dappertutto!», mi fa, poi va via a cercare della ganja giù nei cessi.
«Ma... nei cessi dello Zini?», chiedo a Rebecchi.
Allarga le braccia, fatalista.
«So anche di gente che laggiù ha rimorchiato», conferma, «e di uno che è andato a pisciare ha trovato un cobra rarissimo, lo ha ucciso a mani nude».
Intanto Töna giù al microfono borbotta lieto di come sia strano dopo mesi di assenza riprendere in mano la situazione, per aiutare i giovani capi che si devono fare le ossa.
«Mi vien voglia di cantare un pezzo vecchio, oh», si commuove, «non lo canto da quindici anni oh, Pirulì Pirulàaa, ecco a voi Sandra Milo con i Piccoli Faaaans!»
La curva si interroga sul significato, e ama Töna per la sua incomprensibilità, tipica delle leggende.
Sul nostro gradone transita Valo, albanese doc, un losco figuro noto in città, specie nelle discoteche. Sceglie Maschio, gli sussurra che se cerca «la zia» lui ne trova, roba buona, ma non dentro lo Zini no, ci sono i cani. Fuori, al parcheggio. Maschio lo manda avanti a male parole e spintoni, li separiamo, Valo finge di subire ma sappiamo tutti che il rischio poi è uscire e trovarne dieci, di albani pronti a ripassarti. Però i loro traffici li fan fuori, gli albani, che lo sanno che se i capi ultras si accorgono di loro li fanno sparire qui in curva, gli albani, per sempre.
Maschio si rilassa appicciando una siga, guarda il cemento, seduto, nessuno lo interpella. Sta pensando alla piccola, glielo leggo nel portamento rassegnato delle spalle, nel pulsare delle vene negli avambracci. La vita vera si è fatta largo nella foschia esterna e lo ha scovato per un istante nella bolgia dello Zini.
Da sotto, accanto ai tamburi, vedo alzarsi Popoìto e cercarmi con lo sguardo etrusco di terracotta. Lo saluto con un cenno, lui innalza il mio phon al cielo, lo sventola, lo dà a una tizia coi capelli color puffo e mi indica, poi si siede. Dopo un istante vedo il mio phon spostarsi di mano in mano, ogni persona che lo passa si alza e mi indica al successivo. Il lungagnone con la faccia di ramarro si alza e dice: «Ma dàaai, un phon? Ma dàaai...», e stavolta la Uoma lo blinda. «MaDài!», lo chiama, poi lo carica di parole e lo raggiunge. Limonano.
Nella filiera del phon c’è anche il tizio di colore detto Testa di Moro, che non indica me, indica Sabani con espressione omicida. Ma com’era purtroppo prevedibile, il cammino del mio phon si interrompe bruscamente nei pressi di una fila di schiene nude da scaricatore di porto, tutte tatuate, tutte sostenenti un cranio glabro e sudato. A marzo. Uno solo si volta a guardare se oso dir qualcosa, ha la faccia da killer. Gli faccio segno che hanno il mio phon, mi fa segno piuttosto violentemente che non sa di cosa io stia parlando, che se voglio
posso andar giù a discuterne con loro sette, quando voglio.
Maschio stesso mi fa cenno di lasciar perdere.
Mi chiama Popoìto al cellu. «È arrivato?»
«No. Si è fermato nel bel mezzo dei Longobards, ci vai te a fartelo ridare dato che è mio e ce l’avevi in prestito?»
Cade la linea.
Contemporaneamente parte un coro generale di sostegno al gemellato Ravenna, di cui ci sono due esponenti bizzarri, ubriachi e probabilmente fasulli.
«Ma da quando siamo gemellati?», chiede un tizio butterato giù tra gli ultras.
Töna lo fa prendere e gettare in pasto ai cani lupo del Foro Boario, tra i quali c’è anche il suo, la Gina. I gemellaggi non si contestano.
Torno a osservare il ricciolone abbronzato, che se è Chiorri davvero corro là a leccargli le scarpe.
Piiiiip. Secondo tempo. I due novaresi assurdi sugli spalti di là, i due visibili, innalzano subito uno striscione antisportivo su Cremona. A Töna e ai suoi sergenti gli esplode subito il cuore dall’indignazione, parte una raffica di cori tribali che parlan piuttosto male dei novaresi e delle loro parentele femminili, tra cui una splendida e violentissima versione di «La guerra di Piero» by Töna © che ci lascia di pietra anche noi, la canta lui da solo al megafono, sembra Braveheart!
Noi siamo in balia, lui ci verga tutti.
«Dai rega, oooh! (bestemmietta) Devono essere quarantacinque minuti di guerra! DAAAI! FUORILEVOCI! (bestemmiaccia contenuta) E CHI NON BATTE LE MANI MUORE DOMANI!»
Tutti a battere le mani di brutto.
Il secondo tempo parte in sordina, il ritmo è blando, rende il match noioso. La partita è di serie C1, bene o male ti aspetteresti il bel calcio fino alla fine, invece nel mare quieto e confuso del gioco, della partita ti arrivano solo pochi dettagli, colti tipo fuochi artificiali nella notte nel tramestio della curva, che è animale a sé stante e fa casino e ti distrae. Campolonghi non ferma più un pallone e protesta, Taddei sembra un invasato, o è in terra o fa il fallo e Strada finalmente dimostra la sua veneranda età, a guardarlo bene sembra uno dei Pooh, fatica anche a protestare. Che se non fossimo già 2-0 penseresti: «Hai voglia, ritornare in B giocando così...»
Ma ecco che, proprio quando meno te l’aspetti, il boccheggiante Strada inventa un gran numero inaspettato addomesticando sulla tre quarti avversaria il fùbal, uccellando il solito povero Franzese in uscita e imboccando un’autostrada deserta che conduce alla porta. E con lui è tutta la Sud a correre verso la rete, le recinzioni sotto gli spalti iniziano a tremare, decine di ultras a torso nudo nell’immobile cielo di marzo stanno a cavalcioni delle ringhiere dentate come colossi sudati e bramosi, le punte acuminate a strappare i jeans e la carne, sventolando ingobbiti sciarpe e urlando bestemmie a Strada per incitarlo alla corsa.
E Strada insacca, e la gente gode.
La B è più vicina, la nebbia schiaccia lo Zini sotto un cuscino claustrofobico e la Sud è una girandola di cori e braccia che mulinano.
«SULEMANIII!», urla Töna quando l’entusiasmo si quieta.
«Uno... due... tre... CREEE!... Oh rega, davvero, ieri sera ero alla Pergola in via Tonani e Guido ci ha fatto gli spaghi ai tre sughi e ha tirato fuori il Sangiovese che tiene giù in cantina, oh, quel rosso lì farebbe sbrodolare un cadavere e uno...due... tre... MOOO!... ’iga oh, rega, lo striscione più bello oggi è quello per Priscia con su “vi Prisciamo addosso”, ’iga oh, come me da piccolo all’oratorio col don, bellissimo oh, vince l’abbonamento stagionale al “giornalino della curva” per il 2005 che viene e Franceeese (bestemmia) rotto nel (parolaccia) pezzo di (parolaccia fecale) e uno... due... tre... NAAA! CRE-MO-NA! CRE-MO-NA!»
Ma attenzione! Sugli spalti di là qualcosa si è mosso... la Sud ammutolisce di colpo. L’Uomo Camaleonte si stava mimetizzando con le ringhiere verdi della Nord, ma improvvisamente ha perso la concentrazione e si mostra, perché proprio non ce la fa, alza repentino una mano per mandare la Sud a quel paese. La Sud non lo aveva ancora visto, ma ora si accorge anche di lui.
E l’Uomo Camaleonte scompare di nuovo.
«Oh rega, avete visto tutti?», chiede Töna lento, ma tutti scuotono la testa increduli, pensando al miraggio di massa.
Ripassa il Microlavorante, confuso tra gli ultras giovani.
«Vomito», fa scuotendo la testa, «c’era vomito ovunque, un traghetto impresentabile!», e mesto si fa inghiottire dalla massa.
A dieci dal termine una specie di magone prende la Sud, l’entusiasmo «a tutti i costi», come dire, inizia a scivolare via dalle vene.
Prima di andarcene Töna grida al popolo: «Dai rega oh, su le mani, contiamoci oh, vediamo quanti di noi domenica vanno a Frosinone a sostenere i ragazzi, dai oh, SU LE MANIII!»
Due.
Töna crolla seduto tra i suoi tamburi e i megafoni, in lacrime impotenti.
Cori cattivi soliti per le forze dell’ordine, buoni per i pompieri e per il mister, cattivi per l’emittente locale e per un paio di giocatori novaresi, buoni per il bomber Priscia e per Luisa Corna e via, si esce piano piano, lenti lenti tra i tornelli, a reimmergerci nella nebbia, controllando che il ricciolone abbronzato davvero non sia Alviero.
Non è lui, visto di fronte è uguale a Renato Zero.
Sui muretti del Foro Boario il clan albano di Valo aspetta noi, ma intorno al mio gruppetto c’è anche Marrachèsc coi suoi, le due bande non si pestano mai i piedi in città e tutto fila via liscio. Si resta con tre punti e la sensazione strana di una felicità piccola ed estemporanea, ma che ti riempie almeno questa fredda serata. E qualcuno, approfittando della cortina di foschia, per abitudine va a fare a inutili cornate con le camionette dei celerini al piccolo rondò di via Mantova, e Maschio è tra i primi. Ci lascia indietro, noi tifosi mediocri, spettatori inermi, corre al rondò con altri venti a urlare di rabbia e a tirar lattine vuote ai blindati, senza senso, senza scopo. Urlano e tirano.
E il manganello colpisce.
Maschio è grosso e cattivo, però è lento. Un minuto dopo è in terra, seduto sull’aiuola del rondò, si tiene incredulo una tempia, è stordito e sta sanguinando.
Lo osservo un istante, tutti via a rotta di collo, io vorrei avvicinarmi ma vorrebbe dire solo prender colpi. Mi accorgo che è sconvolto, ha lo sguardo fisso oltre la linea difensiva dei militari, mette a fuoco la vista, offuscata dal colpo.
Sembra guardare qualcosa che non c’è, il respiro affannoso. Muove una mano in avanti, come per toccare con le dita qualcosa di morbido. La piccola, forse. Poi viene preso di forza e caricato su una camionetta.
I celerini disperdono i pochi provocatori rimasti. Noi ci defiliamo giù lungo via Pippia, conduco a mano la bici e ho un piccolo magone che mi macina lo stomaco. La nebbia inghiotte ogni centimetro d’asfalto di Cremona, arrivata stamani dai fossi, uscita dai muri, salita dai tombini, scesa dalle cime alte degli ippocastani.
Lo Zini è scomparso definitivamente alla vista.
Passano motorini con su tre persone e auto che strombazzano con le sciarpe grigiorosse strozzate nei finestrini e nei bauli, e passa Popoìto in bici che mi saluta simulando una piega ai capelli. Si ritorna appagati ma mesti e stanchi, si pensa a ufficio, fabbrica, ferrovia, alle mogli e ai figli, alle morose, al Grosseto che palpa il La Spezia in trasferta, alla vita vera, quella di ogni giorno che ti aspettava dietro le muraglie grigie del Foro Boario.
Sirene, canti, saluti.
«...Oh Rebecchi, ci vediam domenica l’altra...»
«Oh...», mi saluta lui.

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