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Mentre intanto a Lampedusa.. - da Un Cuore Grande Così il 27/10/2013 @ 18:41

Lampedusa: Storia di un calcio isolato (da: parterrenotedicalcio.blogspot.it)
Onde urlanti, inermi. Delle barche muovono insicure, equilibriste nel buio sconosciuto. Migranti attonite, pescatrici di speranze.
Il faro dalla costa illumina scanditamente volti senza nome. Una stanca imbarcazione segue con gli occhi, però, altre luci artificiali. Contornano attente una terra dalle venature marroni, connubio di carnagioni mescolato con manciate di sabbia dorata.
Din. Suona la traversa.
Al “Grazio Arena” si stanno allenando i ragazzi del Lampedusa Calcio, come ogni sera.
Calcio sperduto, calcio isolato. Sognatori danzanti nell’opaco anonimato, volteggianti su logori tacchetti. La loro GSD è di nuovo viva. Appena iscritta nell’ultima serie esistente, dopo mesi di puro calvario. La rinuncia alla prima categoria era stata un’inevitabile conseguenza: troppo alte le spese, troppo elevati i costi per spostarsi in Sicilia più di 10 volte all’anno.
Sacrifici e sudore. L’obbligo di sveglia all’alba della domenica, l’aereo fino a Palermo e poi il pullman fino a Calatafimi, Capaci... Passione irrazionale, tutta lampedusana. Poi le beffe, continue, di molte, troppe società che nemmeno pensavano e penseranno a presenziare oltre mare all’incontro domenicale. Vittorie a tavolino, sconfitte personali inaccettabili, mortificanti.
Le righe bianche risaltano, quasi fosforescenti, sulla placca africana. Le recinzioni sono traballanti. Implorano aiuto, tra smorfie atroci, dai tempi del passaggio papale e dal loro necessario abbattimento. Rendono il campo inagibile per quest'anno, obbligano il Lampedusa a giocare le gare casalinghe a Mondello.
Una bestemmia sibila nel cielo nuvoloso. Il pallone impatta, sordo, contro il legno. Allieta anime, gioca a torello. Lo fa tra le barche che popolano il cimitero, sorto sommessamente a lato del campo. Defunte macchine di morte abbandonate, ripudiate, lasciate marcire quasi per disprezzo.
Un gruppetto di bambini sfida il cordone rosso di pericolo. Occhi brillanti, quelli di pochi eletti alla vista di una sfera rovinata. Il futbol respira a grandi polmoni la brezza mediterranea.
L’impolverato “Grazio Arena” scambia uno sguardo con quella che sarà la sua nuova vicina, barcollante tra le onde.
Gli occhi che ricambiano sono quelli di scuri figuranti. Presto, bisognosi d'un futuro, d'un lavoro, d'una qualche certezza, si troveranno a lasciare impronte nude, a dipingere le suole di rosso, a soddisfare quella biglia fatata che già conoscevano in terre lontane. Non curanti del presente, del passato, del futuro, della vita, della morte.
Un po' come i ragazzi in campo ora, vestiti a festa per il più affascinante rito pagano. Un po' come quest'isola lontanamente vicina a tutto. Un po' come questo calcio naif: ostacolato, emarginato, poeticamente pulsante, testardamente immortale.

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Fenomeni - da Un Cuore Grande Così il 25/10/2013 @ 21:52

"Voglio per forza un figlio fenomeno". Quando i genitori superano il limite. Un fenomeno diffuso nel calcio, ma anche negli altri sport. Piccoli atleti costretti a prestazioni stressanti da padri e madri che pensano di essere gli allenatori, spingendoli a dare sempre di più e mandandoli spesso oltre il loro limite. Tania Cagnotto: "Ma papà Giorgio voleva che facessi danza..." (da: repubblica.it).
Andate a vedere un torneo under 10 di tennis. Fanno spavento. Sono alti poco più della rete e tirano certe botte impressionanti, per potenza e precisione. Se di là ci fosse Peppa Pig la vorrebbero morta. Sono prodigiosi in modo tenero e sconcertante. Non sorridono mai. Si allenano fino a sedici ore alla settimana, in quarta o quinta elementare, per quella partita del weekend. E se sbagliano un colpo, spesso vedrete questi Federer e Sharapova miniaturizzati guardare subito papà o mamma. Seduti su quelle tribune dove tanti genitori fanno molto più spavento di loro. "La mia squadra ideale è una squadra di orfani" è la vecchia battuta che gira tra allenatori. Un paradosso, ovviamente, come sono paradossali i casi di genitori aguzzini, disposti a tutto pur di vedere un figlio campione, che finiscono sui giornali. Ma la normalità che non fa più notizia è fatta di risse a bordocampo alle partite dei ragazzini, arbitri insultati e aggrediti, allenatori contestati. Ogni maledetta domenica, e il sabato pure. Qualsiasi istruttore giovanile, di qualsiasi sport, sa che una parte importante e difficile del suo lavoro è "allenare" i genitori.
La linea di campo tra gioco e stress per il bambino è sottile, quanto quella tra il buon genitore che si limita a far capire l'importanza formativa della disciplina e dell'impegno e quello che invece invade, soffoca, s'arrabbia, giustifica, pretende. "L'influenza negativa della famiglia è il nocciolo del problema" dice il pedagogo Emanuele Isidori, docente di etica e filosofia dello sport. "Troppi genitori proiettano sui loro figli le proprie frustrazioni e aspettative, caricandoli di ansie deleterie. Da una nostra ricerca del 2009 risulta che tra gli 8 e i 12 anni la maggioranza dei bambini pratica sport per vincere, come principale motivazione: questo è grave". Il caso Agassi ha fatto letteratura: il suo best seller Open ha alzato un velo sulle torture psicologiche subite dal padre. Lui però almeno è diventato Agassi. Uno su quanti? Nel calcio, in serie A arriva uno su cinquemila. "I genitori più pericolosi e invadenti sono quelli che non si sentono realizzati e hanno meno cose da fare nella vita" sostiene Isabella Gasperini, psicoterapeuta dell'età evolutiva che collabora con varie squadre di calcio. "E in dieci anni la situazione è peggiorata di pari passo con l'aberrazione del calcio professionistico. Senti questi genitori parlare delle partite dei figli come se fosse serie A: la tattica, il mister... Purtroppo avvertire che questi comportamenti fanno solo danni è inutile: sono meccanismi involontari. Quello che cerco di far capire è che i bisogni dei bambini sono diversi dai loro. I bambini accettano l'errore e il fatto che un altro sia più bravo come una cosa naturale, e invece li vedi costretti a impegnarsi per realizzare i sogni dei genitori dietro la rete secondo un loro tacito e insano accordo. Vanno invece lasciati liberi: di sbagliare, di creare, di calciare come gli viene, di sdraiarsi a guardare il cielo se non hanno voglia di correre, di seguire l'istinto. Liberi anche di assumere le proprie responsabilità e di cavarsela da soli, se un compagno gli ha messo le scarpette sotto la doccia ".
Giordano Consolini, responsabile del settore giovanile della Virtus Bologna, uno dei più titolati vivai del basket italiano, osserva: "Ci sono famiglie che combinano disastri. Un esempio: siamo andati a giocare le finali nazionali under 17 con due ragazzi, amici d'infanzia, che non si parlavano più e non si passavano neanche più la palla per questioni di invidie tra famiglie. Roba di convocazioni in Nazionale e premi che uno aveva ricevuto e l'altro no. I due ragazzi li ho messi in camera assieme, ci ho parlato, ho ottenuto che almeno si rispettassero in campo e abbiamo vinto quello scudetto. Ma con le famiglie i risultati sono stati scarsi, non hanno cambiato atteggiamento. Figurarsi quando subentrano anche i procuratori. Purtroppo molti genitori provocano la cosiddetta "sindrome da campione": il ragazzo viene sopravvalutato, si sente già arrivato e si blocca il processo di crescita. Considera che sia tutto scontato e dovuto, pensa solo che gli basti far passare il tempo e andrà nella Nba. È come se entrasse in una realtà virtuale e non considera più l'opzione dell'insuccesso: se arriva una sconfitta la vive come un fattore imprevedibile, non trova una via d'uscita, resta disarmato perché è stato programmato solo per vincere. Ed è difficile a quel punto farsi ascoltare. Perché è più comodo dar retta a chi ti regala un alibi dando la colpa a un altro: all'ambiente, al tecnico, ai compagni, agli arbitri. Il talento non basta per diventare giocatori".
La mala educación tocca l'apoteosi intorno al campo da calcio, dove rispetto ad altri sport il miraggio di ricchezza è più abbacinante. "Quando i genitori vedono il bambino solo come una possibile fonte di guadagno, è finita - dice Devis Mangia, ex ct dell'Under 21 - . Tutti pensano di avere il campione in casa. Quando un ragazzino si comporta male costa meno fatica etichettarlo come piantagrane e abbandonarlo al suo destino, mentre parlandoci si scoprono spesso situazioni famigliari alle spalle che spiegano gli atteggiamenti deviati. Ma, al contrario di quanto si possa credere, non è detto che subisca maggiori pressioni chi viene da contesti culturali e sociali inferiori, dove un contratto da professionista potrebbe rappresentare una svolta per tutta la famiglia". Lo conferma anche Roberto Meneschincheri, responsabile dell'attività agonistica under 16 dello storico Tennis Club Parioli di Roma, il circolo che ha sfornato Pietrangeli, Panatta e Barazzutti: ultimo titolo vinto, il campionato italiano under 12 femminile. "È questione di istinto e carattere, non di denaro o laurea: i genitori troppo pressanti che chiedono ai figli solo il risultato sono molto diffusi. Col dialogo di solito si riesce a ottenere collaborazione, a far capire che non va data troppa importanza alla partita e a evitare così interferenze o intemperanze durante il gioco".
Molte società fissano un decalogo dell'ovvio. Sdrammatizzate, incoraggiate, esaltate i risultati positivi e alleggerite le sconfitte, non entrate in campo e negli spogliatoi, lasciate che la borsa se la portino da soli, non discutete con l'allenatore di schemi e ruoli, rispettate gli arbitri, non parlate male al ragazzo del suo allenatore e dei suoi compagni. Eccetera. Ma il pedagogo Isidori non assolve nemmeno le società: "Dicono pensate a divertirvi ma il messaggio che di fatto viene trasmesso implicitamente dal sistema è un altro: conta solo vincere. Accade perché è completamente sbagliato il modello del Coni: le federazioni per avere soldi devono portare risultati. In Italia manca educazione sportiva perché non esiste lo sport per tutti: gratuito".
Lo stereotipo di madre italica che segue con apprensione il bambino sulle macchinine a gettone dei parchi, va fortemente in crisi davanti alla storia di Mattia Caminiti, anni otto, che, come altri coetanei, corre a cento all'ora sui go kart. Figlio di Andrea, ex tennista, e Nicoletta, ex ciclista professionista: un paio di volte alla settimana lo passa a prendere il meccanico e lo porta sulla pista di Jesolo. Nei weekend tutta la famiglia invece parte in camper per seguirlo sui vari circuiti. "Gli abbiamo fatto provare calcio, basket, nuoto, tennis, ma Mattia vuol fare quello, non c'è verso, ed è molto bravo - racconta il papà - . Corre da quando aveva meno di quattro anni. Gli viene naturale, non si rende neanche conto di come. Nessuno lo obbliga". È uno sport molto costoso: ogni anno partono dai 15 ai 25mila euro, quindi servono conti solidi (mamma ha una fabbrica di lampadari) e sponsor. Il papà ha una web agency e ha creato un blog per MattiRed. "Ci sono altre famiglie che fanno i debiti per far correre i figli di nove anni, ci investono e nutrono speranze. Così nove adulti su dieci dell'ambiente si stupiscono che Mattia si diverta sul serio". Guardate una gara su www. easykart.it sembra un videogame per topi. Chissà se ridono, dentro quei caschi enormi.

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Autismo - da Un Cuore Grande Così il 25/10/2013 @ 18:04

Il bimbo autistico scende in campo, il calciatore lo rassicura (da: repubblica.it) La storia che commuove la Svezia.
Una settimana fa, alla Firends Arena di Solna, nella contea di Stoccolma, si è disputato un incontro valido per le qualificazioni ai Mondiali 2014 tra Svezia e Germania, terminato 5-3 per la nazionale tedesca. Sette giorni dopo la rete celebra il vero "spettacolo" di quella partita: l'ingresso in campo delle due formazioni, accompagnate da 22 giovani mascotte affette dalla sindrome di Williams, un raro disturbo dello sviluppo caratterizzato da comportamenti autistici. In particolare stanno facendo il giro del web le immagini che hanno per protagonista il calciatore svedese Kim Kallstrom, che rassicura e abbraccia il piccolo Max (con indosso la divisa della Germania) nei minuti che precedono l'inizio del match.
Il papà del bambino, Emil, ha ringraziato il giocatore con una lettera commovente che poi è stata pubblicata su Facebook: "Grazie al tuo comportamento - scrive Emil - mio figlio è riuscito a provare le stesse emozioni degli altri: orgoglio e la sensazine di essere speciale. Ti sto scrivendo perché non sono del tutto sicuro che tu abbia capito quello che hai fatto per noi. Martedì Max è riuscito a fare qualcosa di speciale: mantenere la concentrazione per 15 minuti senza alcun accenno di nervosismo". Queste righe sono state condivise su Facebook più di 17.000 volte e hanno raccolto quasi 100.000 "mi piace"

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Ecco qui sotto il testo originale della lettera di papà Emil con sotto il nostro precario ma volenteroso tentativo di traduzione.

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Ciao Kim. Il mio nome è Emil e sono il padre di Max che è andato con lei in campo martedì scorso contro la Germania. Scrivo a voi perché non sono del tutto sicuro che capiate quanta differenza che avete fatto. Martedì scorso, come ha sperimentato mio figlio Max, è stato qualcosa di molto speciale, per gli altri bambini quindi queste sono probabilmente circa 15 minuti di concentrazione e di nervosismo, così come una gioia incredibile essere stata una parte attiva e che ti ha colpito in squadra. Per Max così martedì è stato il risultato di settimane di allenamento, la visualizzazione di clip di YouTube, il gioco di Cheerleading ad alto volume a casa, chiamare ecc ecc. A causa delle vostre azioni, Kim, mio figlio poteva sperimentare esattamente le stesse emozioni di tutti gli altri che hanno fatto questi compiti, orgoglio, un senso di essere speciale, "l'ho fatto", e una gioia immensa. Dal mio punto di vista in tribuna così ho osservato direttamente sul tuo linguaggio del corpo che si era fatto la vostra scelta! Cosa voglio dire con questo? Beh, si è scelto di essere coinvolti, si è scelto di supportare Max, avete preso le sue paure e agito. La vostra decisione di scegliere di sostenere Max quando lui si spaventa, si piega verso il basso e lo lenire (anche se aiuta solo per un breve periodo) manda tanti messaggi positivi per noi e fa la differenza tra il successo di Max o un fallimento. Quello che fai in quei 7-8 minuti può darci mesi di gioia, di ricordi per la vita e un senso di Max che dice "ho riparato". Vorrei dire GRAZIE dal profondo del mio cuore! Ora ho un piccolo eroe di 8 anni a casa in abito della nazionale che pensa di essere il personaggio della TV e tu sei una grande parte di questo. Così sia che si allontanava, ma ha tenuto la mano, uscì sul prato e lui era lì! Questo è ciò che conta, che lo ha sostenuto esattamente il modo in cui lo ha fatto e ha anche preso la decisione di lasciarlo andare prima di diventare una esperienza negativa. Questa è la leadership, il ruolo di modello, di orientamento e ha agito a livello superiore nel mio mondo! Non sono suscettibili di leggere tutti i blog, ecc., ma i miei sentimenti come genitore sono ben riassunte qui. Grazie ancora! Saluti Emil


Quali verità.. - da Un Cuore Grande Così il 23/10/2013 @ 16:53

Dal profilo facebook di Natalino Balasso.

Ricordo una pagina di giornale divertente, quando Alberto Tomba era ancora il gigante dello slalom e, durante una gara, si vide scivolare gli occhiali davanti agli occhi e perse la manche. Il titolo della conseguente intervista recitava: "Maledetti occhiali!". Sotto l'articolo c'era un box pubblicitario in cui Tomba posava come testimonial di quegli stessi occhiali. Normalmente questi episodi vengono etichettati come "incidenti mediatici".
Quando la narrazione si finanzia con la realtà, quale parte della realtà verrà narrata e quale verrà nascosta?
In questi giorni il Fatto Quotidiano racconta alcuni retroscena truffaldini che coinvolgono Unipol e Coop. Per prima cosa gli interessati ritirano la loro sponsorizzazione al giornale. Una punizione per aver messo in cattiva luce le aziende sponsorizzatrici.
Cos'è dunque una sponsorizzazione? Il pagamento di un servizio che riguarda il contenuto del giornale? E che senso ha leggere giornali che sono finanziati dalla realtà che descrivono? Quando La Stampa parla male di Grillo, lo fa a ragion veduta o perché Grillo è un competitor del PD? Quando il Giornale parla male di un giudice, sta veramente narrando la realtà? Esistono intrecci curiosi che riguardano, ad esempio, le concessionarie di pubblicità (non è una sorpresa che la raccolta pubblicitaria sui giornali è per il 75% nelle mani del signor Berlusconi) e dal momento che i giornali hanno vissuto sempre di mecenatismo, sia esso dello Stato o delle aziende, è davvero difficile nella nostra nazione pensare ad un giornalismo davvero indipendente.
Certo, ci sono rari giornali che dipendono in prevalenza dal proprio pubblico, cioè dai lettori. Ma cosa cercano i lettori? La realtà ci dimostra che i giornali che trovano il favore di un nutrito numero di lettori sono quasi sempre battaglieri e aggressivi. Insomma, se hai un nemico che è anche mio nemico io compro il tuo giornale.
Non voglio entrare nella polemica seguita a un commento (secondo me non colpevole) di Odifreddi nel suo blog, ma il tema è proprio questo: viviamo un racconto scadente della realtà e il racconto ci viene quasi sempre fatto da persone colluse con la menzogna. Il problema non è solo se una cosa sia vera o non vera, ma quale porzione della realtà ci venga raccontata, perché è spesso con la verità che si confeziona una menzogna, i punti di vista spostano il panorama.
Quando, ancora oggi, leggiamo che ci sono novità su Ustica, abbiamo l'impressione di trovarci in una commedia grottesca. Allora càpita che, certe volte, la testata di un giornale o il titolo di un saggio o le immagini di un documentario sembrano porre una domanda a noi che leggiamo e guardiamo le figure.
La domanda è: Che favola vuoi che ti racconti oggi?
Perché spesso la menzogna è nostra, spesso aggiungiamo al racconto particolari di cui ci autoconvinciamo senza che nessuno ce li abbia raccontati.
Questo dipende dal quadro ideologico di cui facciamo parte perché, volenti o nolenti, la nostra idea del mondo è sempre un esercizio ideologico.
Ecco il punto. Che favola vogliamo farci raccontare?

Sotto, la prima strada in Italia intitolata ad una squadra di calcio

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1979, Diego Armando a tutto tondo - da Un Cuore Grande Così il 21/10/2013 @ 15:29

Diego Armando Maradona, diciannovenne emergente. (da: calcio-amarcord.blogspot.it) "El Pelusa" presentato dal giornale spagnolo El Mundo Deportivo, pochi giorni prima del Natale 1979.

NOMBRE: Diego Armando Maradona
LUGAR DE NACIMIENTO: Lanús (Argentina)
FECHA: 30 de octubre de 1960
PESO: 68 kilogramos
ALTURA: 1,66
ESTADO: Soltero
COCHE: Ford Coupé
ANTECEDENTES FUTBOLISTICOS EN LA FAMILIA: Mi padre que jugó en un equipo amateur
CLUBS A LOS QUE HA PERTENECIDO: Siempre al Argentinos Júniors
JUGADORES A LOS QUE ADMIRA: Mario Kempes y Rainer Bonhof
IDOLO DE SU NIÑEZ: Pelé
OTRO EQUIPO DE SU PREFERENCIA: River Plate
JUGADOR QUE MEJOR LE HA MARCADO: Tavita García cuando jugaba en el River. Ahora es compañero de equipo
PARTIDO MEJOR JUGADO: Partido de semifinales del Campeonato del Mundo Juvenil de Japón, Argentina-Uruguay. Ganamos 2-0
MEJORES RECUERDOS: Ganar la Copa del Mundo juvenil y ser nombrado Futbolista del Año de mi país
PEOR RECUERDO: No estar en el pasado Mundial de Argentina
CIUDAD QUE MAS LE GUSTA: Río de Janeiro (Brasil)
PAIS MAS BONITO QUE CONOCE: Argentina
OTROS DEPORTES QUE PRACTICA: Tenis
SU MEJOR VIRTUD: Ser amigo de mis enemigos
SU PRINCIPAL DEFECTO: Quizá ser algo temperamental
¿LE GUSTA LA POPULARIDAD? Bastante
PLATOS PREFERIDOS: Asado al horno
PASATIEMPOS QUE DETESTA: Ninguno
PASATIEMPOS QUE PREFIERE: El tenis de mesa y la televisión
PROGRAMA FAVORITO DE TV: Cine y deportivos
CANTANTES FAVORITOS: Julio Iglesias
ACTORES PREFERIDOS: Ryan O’Neal
LITERATURA QUE PREFIERE: Novela
MUSICA QUE LE GUSTA: Melódica
MEJOR AMIGO: Jorge Siterbuler, que es mi apoderado
PERSONAS QUE HAN INFLUIDO EN SU CARRERA: Toda mi familia
PREOCUPACION MAYOR MIENTRAS JUEGA: Ganar
ENTORCHADOS INTERNAClONALES: 20 veces internacional juvenil y unas 15 con la Selección «A»
¿TIENE ALGUN NEGOCIO? Pocos y todos ellos relacionados con la publicidad
PROYECTOS FUTUROS: Ser el jugador número uno del Mundo
PERSONAJE DEL MUNDO QUE LE GUSTARIA CONOCER: Farah Fawcett Majors y María José Cantudo
¿COMO LE GUSTARIA QUE LE RECORDARAN? Como una buena persona.

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Schillaci - da Un Cuore Grande Così il 13/10/2013 @ 15:34

L'altro Schillaci, da bomber a barbone: "Io, Totò, Zeman, la Lazio, poi la droga..." (da: gazzetta.it). La parabola discendente di Maurizio idolo in Sicilia, il cugino "più forte di Totò" e pupillo del boemo: "Dalle stelle al nulla, un declino veloce. Fossi andato al Foggia, sarebbe stata la svolta: una volta mi proposero una combine e lui mi disse di rifiutare. Adesso dormo nei treni fermi alla stazione". la sua storia raccontata da siciliainformazioni.com
L'immagine dei senzatetto che dormono sui treni fermi alla stazione colpisce di più, probabilmente, sapendo che uno di quei clochard ha giocato in Serie B negli anni '80, con contratti da 500 milioni di lire e durante la carriera ha cambiato 38 auto. Quel clochard è Maurizio Schillaci, cugino di Totò, l'uomo delle Notti Magiche di Italia '90. E pensare che c'è stato un tempo in cui era Totò a essere il cugino di Maurizio e non viceversa. Perchè chi lo ha visto crescere e giocare sui campi prima polverosi della sua Sicilia e poi arrivare fino alle porte del grande calcio ha sempre avuto pochi dubbi: "Maurizio era più forte di Totò...". Ma dopo tanti gol in campo, Maurizio ha fatto autogol nella vita, bruciando il talento, perdendo la famiglia conoscendo l'incubo della droga, fino a quei vagoni che la notte lo ospitano.
LA PARABOLA DISCENDENTE — La storia è una drammatica favola al contrario. Schillaci cresce nelle giovanili del Palermo, arriva a Licata voluto da Zeman allenatore e segna 22 gol in 66 partite. Trequartista dai piedi d'oro ma dalla testa matta, non sapevi mai cosa potesse fare e meno di tutti lo sapevano i portieri avversari. Talento puro. Lo prende la Lazio in B, l'Olimpico il contratto a sei zeri, la fama anche se si parla di serie cadetta, ma gioca poco per un infortunio al tendine mal curato, va a Messina con suo cugino Totò, la sfida a chi segna di più, ma ancora guai fisici, il passaggio alla Juve Stabia, la droga. Prima la cocaina, poi l'eroina. È l'inizio della fine . Che lo porta a separarsi dalla moglie, a perdere amici, contatti, contratti. E oggi a non avere una casa e a camminare per il mercato della Vucciria a raggranellare qualcosa da mangiare. “Tutti dicevano che ero più forte di Totò . Può essere. Di sicuro io non ho avuto la sua fortuna”. Comincia così un lungo e amaro racconto riportato con tatto ed emozione da Alessandro Bisconti su www.siciliainformazioni.com.
LUI, LA CARRIERA E ZEMAN — Maurizio, il viso scavato e segnato da droga e tristezze ripercorre nella lunga intervista le tappe di vita e carriera: “Le mie stagioni migliori le ho vissute con Zeman. Segnavo gol a ripetizione. Poi è arrivata la Lazio. Era il mio periodo di grazia. Vivevo nel lusso, ho cambiato 38 auto, ho giocato nello stadio dei sogni, l’Olimpico. Contratto di 500 milioni per 4 anni. poi qualcosa non va per il verso giusto. I primi infortuni, gli stop. Poi scopro perché. Vado in prestito a Messina, là trovo mio cugino Totò. Tutti i giornali parlavano di noi, io e lui facevamo a gara a chi segnava di più. Ma la mia carriera in realtà s’è spezzata a Roma. Un infortunio mai curato che mi impediva di esprimermi al meglio. Facevo poche partite e mi fermavo. Mi chiamavano il “malato immaginario” o il “calciatore misterioso”, perché ero sempre in infermeria. In realtà avevo un tendine bucato. A Messina si accorgono del problema, mi curano, ma la carriera era ormai volata via. Poi ho subito altre situazioni. Più brutte degli infortuni. Vado alla Juve Stabia, ormai ho 33 anni. E qui conosco la droga. La cocaina, poi l’eroina. Nel frattempo ho divorziato da mia moglie. Zeman? Ogni tanto lo intravedo ancora. Lui impazziva per me. Un grande in campo e fuori per le sue battaglie. Il doping? C’è stato sempre. A me consigliavano di prendere la creatina, mi sono fidato dei medici. Era proibita, ma l’ho saputo dopo. Soldi per aggiustare le partite? Solo una volta me li hanno proposti. Giocavo nel Licata, a Casarano, lo dissi subito a Zeman. Mi disse di rifiutare. Poi finì 0-0, prendemmo 8 pali… Ma a volte le partite si decidono in mezzo al campo, parlando…”.
LUI E I BARBONI — “Il mio declino è stato velocissimo e ora mi ritrovo per strada. Non riesco a trovare lavoro, dormo nei treni fermi alla stazione. Ci sono altre persone con me, siamo un gruppo di 20 barboni. Con mio cugino Totò non ci sentiamo più. Ho lavorato nella sua scuola calcio per un periodo, ma per “travagghiare” là spendevo 300 mila lire e guadagnavo la stessa cifra. Ho deciso di mollare. Ed ero stanco delle chiacchiere della gente di quel guardarti storto di chi diceva: non porto mio figlio da chi si drogava. Ma l’eroina per me non esiste più. Ho toccato il fondo ma ora voglio risalire. Ogni tanto guardo i bambini giocare in mezzo alla strada. Li osservo e mi piacerebbe dare un calcio a quel pallone…”.

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Genoa Club Monòver! - da Un Cuore Grande Così il 08/10/2013 @ 11:42

Riceviamo e volentieri pubblichiamo dalla Spagna!

Come promesso, e in rigoroso ritardo, vi mando le foto dell'inaugurazione del Genoa Club Monòver (fatta il 7 settembre, ndr).
Io son quello con gloriosa casacca, mia moglie è la moretta e mia figlia, socio nº1, la piccola bionda. Gli altri tutti soci tesserati... e siamo a 47!
Un abbraccio dal levante (spagnolo) e forsa zena semmo i megio!
Emanuele
Genoa Club Monòver

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Siria, calcio e macerie - da Un Cuore Grande Così il 06/10/2013 @ 17:17

Proiettili di cuoio. (da: parterrenotedicalcio.blogspot.it) Ritratto di calcio siriano.
Poc-poc-poc. Le macerie respirano, vibrano. Bashar è seduto, solo. Lancia scanditamente parti di soffitto, lo capisce dal colore dell’intonaco. La polvere offusca la vista, crea il peggiore dei miraggi.
Centro del distretto di al-Mezzeh, Damasco, Siria. I colpi vicini non straniscono Bashar. Ha poco più di 12 anni, abbandonato ai suoi pensieri come ai cenci che veste, per inerzia, da mesi ormai.
Guerra civile, guerra tremenda. La distesa di detriti è una compatta, funerea coperta per Haytam e Samir. Erano i suoi due migliori amici. Erano.
Bashar è scalzo, poggia attivo i piedi su una vecchia pelota, è l’unico ricordo rimasto di Haytam e Samir. È rotolata fuori quasi per caso, quasi per volontà altrui, dal grottesco tonfo di tonnellate di cemento.
Al-Mezzeh è una zona caldissima, proteste anti-governative alternate a prese di forza dell’esercito, attentati all’aeroporto militare, stragi alla moschea.
Il padre del dodicenne è un ribelle, la madre si limita a piangere. Sente le sue lacrime anche in questo istante Bashar, le sente sulla pelle, sulla fronte, sta guardando in alto. “Mamma non piangere, fammi stare qui a giocare ancora un po’ con i miei amici!”. La pioggia inizia a scendere commossa dal cielo di Damasco.
Corre Bashar tra le vie marchiate dai suoi doppi passi, dai sorrisi di bambini dagli occhi colmi di futbol e sparatorie, di vita e morte. Marchi delebili.
La palla si ferma, controllata, docile, sotto un muro sporgente, pericolante. Una targa, decrepita, recita sicura: “Nel 1920, qui, è nato il calcio in Siria”.
Bashar conosce bene la storia di quella partita. Per anni si è affacciato dal balcone immaginando l’epica scena, l’odore spasmodico ed eccitante della ricerca del gol, l’affannoso ululare di tifosi novizi ma pronti. La immaginava dipingendo immagini tra le parole di suo padre; quella era l’unica storia che avrebbe ascoltato per ore, per anni. “Se tutti i politici fossero come Nuri Ibish, la nostra Siria sarebbe un grande Paese.”, si sentiva sempre dire. Nuri Ibish, la sua foto appena sotto la targa, ingiallita, umilmente fiera in questo deserto umano. Bashar imita la posa, marionetta in un teatro deserto, carica il petto superbo. Ricco proprietario terriero, politico affermato della prima metà del ‘900, ministro del Gabinetto, pioniere unico del calcio siriano. Apprese regole, fascino e trascendentale armonia durante un viaggio nell’Inghilterra della Grande Guerra. Immediatamente corse a Damasco. Nel 1919 convinse le truppe inglesi ad allenare i suoi compaesani: non alla vita da trincea o a come centrare il bersaglio con maggiore costanza, semplicemente alla magica arte del football.
Nel 1920 la prima partita, in quello spiazzo su cui ora sta pellegrinando un bambino assente; la vittoria degli artigiani di casa sulle truppe inglesi per 4 a 2, tra migliaia di siriani freddati calorosamente da un Cupido con la sciarpa al collo, con un due aste issato, con una palla impazzita tra piedi burberi ed incoscienti. Un re, Faysal I, talmente fiero dei giocatori siriani, da regalare ad ognuno di essi un orologio d’oro.
Luccichii sotto un maglione, distante pochi passi da Bashar. Ancora i piedi sporchi a divertire la pelota, a sollevare l’anima da questa nebbia irregolarmente illusoria, candida e compatta, da quest’etereo terrore mai domo, ammorbante, ormai banale.
Bashar muove il maglione di qualche centimetro, il luccichio aumenta, trascinando con sé, di forza, il battito del cuore. Un orologio d’oro del re Faysal, magari proprio quello di Nuri Ibish. Un proiettile. Un crudo, freddo, ghignante proiettile cullato dalla lana grezza dello scuro maglione.
Bashar carica il destro, il piede spoglio, come tutto il resto. Colpisce la targa, unica luce in queste tenebre. Le rovine vacillano. Mette il proiettile in tasca, abbandona il cuoio nella fanghiglia agonizzante. Ha scelto, combatterà al fianco di suo padre per Haytam, per Samir, per diventare un giorno come Nuri Ibish e riportare la pace nel suo distretto, nella sua città, nel suo Paese.
Poco distante, proprio dove quella maledetta autobomba ha portato via la sua amata madre, la sua sicura casa, il neo combattente osserva un gruppo di bambini: hanno appena ricominciato a correre ed emozionarsi palla al piede. Gli spari sibilano, fischietti non retribuiti, incriticabili.
Il cielo è sereno ora, il sole asciuga il volto rigato di Bashar, di tutta al-Mezzeh.
“Tranquilla mamma, al limite piangeremo insieme.”.

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El Superclasico - da Un Cuore Grande Così il 06/10/2013 @ 14:50

I duelli che hanno fatto la storia (da: revolart.it) Boca-River, Il Superclasico.
Era il 24 agosto del 1913, una domenica di fine inverno a Buenos Aires ed il campionato di calcio vedeva lo scontro tra due squadre della capitale argentina, nate entrambe nella decada precedente, entrambe nello stesso quartiere: La Boca. La Boca è il quartiere più folkloristico di Baires, un trionfo di colori e (oggi) 50.000 anime che lo popolano incessantemente, anime il cui cognome ha spesso origini italiane, che affondano le proprie radici negli emigranti genovesi che sbarcarono sulle coste del Rio de la Plata a cavallo tra fine ottocento e inizio novecento.
Il 25 maggio del 1901 nacque ufficialmente, nel quartiere della Boca, il Club Atletico River Plate, fusione di due squadre, Santa Rosa e La Rosales, dalle chiari origini inglesi, nome scelto dai fondatori del club, in maggioranza d’origini italiane, per omaggiare il football inglese. Origini italiane che si ravvisano anche nella maglia biancorossa, colori scelti dal simbolo di Genova. Il River è oggi soprannominato il “Millionario” dal giorno dell’acquisto di Bernabé Ferreyra, storico goleador argentino, per la bellezza di 35.000 pesos (corrispondenti a poco meno di 5.000 euro) record assoluto e impensabile per l’epoca.
Quattro anni dopo, il 3 aprile del 1905, nasce, sempre nella Boca, il Club Atletico Boca Juniors, letteralmente i “Ragazzi della Boca”. Perché a fondare il Boca furono proprio dei ragazzi. Ovviamente d’origine italiana, ovviamente d’origine genovese. E indovinate un po’ quale è il soprannome del Boca (e degli abitanti della Boca)? Xeneizes, una deformazione di Zeneize, che altro non è che la traduzione in dialetto ligure di “Genovese”.
Quel 24 agosto di 100 anni fa River e Boca si affrontarono per la prima volta in una partita ufficiale, non la prima volta in assoluto (vi furono due amichevoli nel 1908 e nel 1912, rispettivamente conclusesi con una vittoria Xeneize e un pareggio), ma la volta in cui nacque definitivamente una delle più grandi rivalità della storia dello sport. Il Boca giocava in casa, in “affitto” nello stadio del Racing, nel barrio di Avellaneda, data l’elevata quantità di pubblico atteso (si stima che 7.000 persone si recarono allo stadio in quel freddo pomeriggio agostano), e la partita era prevista per le 14.30. Era prevista, perché a quell’orario, in quel di Avellaneda, mancava un protagonista essenziale: l’arbitro. Già, il direttore di gara non si presentò allo stadio, e fu necessario cercarne in fretta e furia un altro: con 40 minuti di ritardo sulla tabella di marcia la missione fu compiuta e si diede il via alla partita. Il Boca partì alla grande, ma non riuscì a concretizzare le sue occasioni causa l’inconcludenza del centravanti Mayer, e a metà del primo tempo giunse il gol del River Plate: calcio d’angolo di Roberto Fraga, gran colpo di testa di Candido Garcia e i Millionarios si portarono in vantaggio. I “padroni di casa” accusarono il colpo e, non riuscendo ad organizzare una risposta efficace, il primo tempo terminò sull’1-0 per il River. Nel secondo tempo la musica non cambiò, i biancorossi raddoppiarono con un tiro corto di Ameal che si infilò alle spalle della porta difesa dal portiere del Boca Virtù Bidone. I gialloblù cominciarono a reagire con più decisione affidando le chiavi del proprio gioco al fantasista Romano, che al 28° mise un pallone invitante a centro area, che divenne preda proprio dell’inconcludente Mayer, che realizzò il gol dell’1-2. Riapertasi la partita, l’atmosfera si fece più intensa ad Avellaneda, e in seguito a quella che oggi potremmo definire una “carica sul portiere”, nell’area di rigore del Boca si formò un capannello di giocatori che diedero vita a una scazzottata terminata con l’allontanamento di Ameal dal campo e una pessima immagine del futbol argentino data da una partita che, fino a quel momento, era stata molto corretta. Dopo quell’episodio non accadde praticamente più nulla di così degno di nota e la partita terminò sul 2-1 per il River, che vinse la prima di una infinita serie di battaglie. Per la precisione furono 343, divise tra campionato, tornei non professionistici, amichevoli e trofei internazionali. A quella vittoria Millionaria seguirono altri 108 trionfi biancorossi, contro i 126 successi dei Xeneizes. Ma ciò che Candido Garcia, Roberto Fraga, l’inconcludente Mayer e gli altri 19 giocatori che diedero vita al match del 24 agosto 1913 non potevano immaginare era che quella giornata avrebbe segnato il primo capitolo di una storia infinita, di una rivalità che è tra le più sentite e accese della storia dello sport argentino, sudamericano e mondiale, di un duello che ha attraversato lo sport ed è un bivio che la stragrande maggioranza dei ragazzi argentini deve fronteggiare prima di diventare adulto. In un paese dove Boca contro River significa anche il pueblo contro l’élite, gli immigrati proletari contro coloro che “ce l’hanno fatta”, chi nella Boca ci è rimasto contro chi se ne è andato per stabilirsi nelle zone più industriali e ricche della Gran Buenos Aires. È la sfida tra la supremazia internazionale (il Boca è la squadra che, insieme al Milan, ha vinto più trofei internazionali) e il predominio in patria (il River, con 33, detiene il record di campionati vinti). È la sfida che ogni bambino argentino, che se ilusiona di essere un giocatore di futbol, sogna di giocare. È, secondo il quotidiano inglese The Observer, l’esperienza sportiva più intensa al mondo. È una sfida infinita, che domenica 6 ottobre si rinnova per la 344° volta a 100 anni di distanza dalla prima, con le due rivali di sempre pronte per 90 minuti che paralizzeranno l’Argentina ed il mondo del calcio mondiale. E (su questo c’è da giurarci) stavolta non si inizierà in ritardo per l’assenza dell’arbitro. Non come 100 anni fa.

Sotto, una fase di un Superclasico del 1978, si distinguono Passarella e Fillol

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Comunicato T.O. e gemellaggio - da Un Cuore Grande Così il 26/09/2013 @ 16:28

FRATELLI NELLA VITA, NON SOLO ALLA PARTITA!!!
La Tifoseria Organizzata comunica che, come avvenuto in occasione della gara con il Livorno, anche con il Napoli verrà effettuata al di fuori dello stadio una raccolta per aiutare un ragazzo di Ancona con gravi problemi di salute. La T.O. del Genoa è sempre stata presente quando c’è stato bisogno di dare una mano, e questa volta non vogliamo essere da meno, in particolar modo perchè si tratta di uno di noi, un fratello di Ancona. Noi Genoani abbiamo dimostrato più volte di saperci compattare per stare vicini a chi ne ha più bisogno, e questa volta il nostro obiettivo è rafforzato da oltre 20 anni di gemellaggio e forte amicizia, di cui noi siamo fieri e orgogliosi.
Chiunque e in qualsiasi momento può rivolgersi alla T.O. per avere delucidazioni e chiarimenti in merito alla destinazione della raccolta, perchè chiarezza e trasparenza stanno alla base del nostro operato.
ANCORA UNA VOLTA, APRIAMO TUTTI INSIEME IL NOSTRO VECCHIO CUORE ROSSOBLU!!!
La Tifoseria Organizzata del Genoa CFC 1893
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Sabato torna la festa del gemellaggio (da: solonapoli.com) Un´amicizia tra i tifosi di Genoa e Napoli che va avanti dall’82 ed è fatta di tolleranza e di reciproco rispetto.
E sabato il Genoa. Un vecchio amico. Un “fratello”. Di più: un “gemello”. Sì, è vero, nel calcio i gemellaggi appartengono ai tifosi e ai loro migliori sentimenti e non certo a quelli dei club e delle squadre che restano rivali, ma fa bene a tutti sapere che quel match vivrà sempre d’un clima d’amicizia e di serenità. E Dio solo sa quanto ve ne sia bisogno dopo i cori, le lamette e i sassi di Milano.
Cosicché fa bene al cuore ed al pallone quel banner colorato che va e viene sul sito ufficiale rossoblù. “Il gemellaggio più bello del mondo, vi aspettiamo”: questo il messaggio genoano al tifo azzurro. Poche e sincere parole che resistono dall’82. Da trent’anni e passa. Dal 16 maggio di quell’anno, quando il San Paolo intero tifò per un pari che avrebbe tenuto il Genoa in A e condannato, invece, il Milan alla retrocessione in serie B. E fu così che dopo un corner regalato dal quel cuore buono di Giaguaro Castellini, Mario Faccenda, ischitano di nascita e genoano d’adozione, lasciato – guarda un po’! – tutto solo a tre metri dalla porta mise in rete il pallone del facile due a due.
LA STORIA – Fecero gol Briaschi e Faccenda per il Genoa e Criscimanni e Gaetanino Musella per il Napoli e furono abbracci e baci in campo e fuori, quel giorno. E tra i tifosi nacque spontaneo un giuramento d’amicizia che il tempo ha rafforzato. Già, perché nel 2007 i tifosi azzurri e quelli rossoblù intorno alla fontana di bronzo di piazza De Ferrari cantarono e ballarono assieme per il ritorno in A. Una festa che sabato ritorna, dunque. Soprattutto, un appuntamento che restituisce protagonismo ad uno dei valori fondamentali dello sport, negando finalmente l’equazione che il raduno di due folle diverse di tifosi è sempre uguale all’irrazionalità più distruttiva. Non è vero. Genoa e Napoli dimostrano il contrario. E cioè, che anche il bistrattato (ahinoi, spesso non a torto) tifo del pallone può portare in sé forze innovatrici e promotrici di mutamenti positivi. Buoni esempi, insomma. Buoni esempi di un calcio vissuto senza barriere ideologiche pur senza il venir meno, mai, dei principi di identità e senso d’appartenenza ad una maglia e ad un colore.
FESTA - Tutti assieme appassionatamente allo stadio genovese, dunque, sabato pomeriggio. Un felice intreccio di sciarpe e di bandiere, così come felice fu quello vissuto nelle strade di Napoli nel giorno dell’ancora fresca, suggestiva e vincente sfida col Borussia. E infatti non è escluso che il tifo azzurro si gemelli presto anche con quello tedesco giallo e nero. E sarebbe il primo gemellaggio con un tifo al di là dei confini nazionali. Esperienza che il Genoa, invece, già vive con soddisfazione da quando ha stretto vincoli di fraternità con i cuori matti della Bambonera. Con i tifosi del Boca Juniors, insomma, E non poteva che essere così, visto che quel quartiere colorato della capitale d’Argentina fu tirato su da italiani in gran parte salpati proprio dal porto genovese. Certo, un gemellaggio non è un porto, ma può essere ugualmente un punto di partenza verso terre di tolleranza e di reciproco rispetto. E non è poco, no?

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