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Emerge che... - da Un Cuore Grande Così il 01/11/2014 @ 07:53

Dalla rassegna stampa (e non solo) emerge che "... vorrei parlarvi ora di quel poco che ho già fatto nelle mie commedie, le quali, anche se non sono dei capolavori, anche se forse non mi sopravviveranno come hanno sostenuto e sostengono tuttora alcuni critici, hanno però il merito di aver sempre trattato i problemi della società in cui ho vissuto e vivo proponendoli dal palcoscenico all'attenzione delle autorità e del pubblico". Eduardo DE FILIPPO riassumeva così la cifra dei suoi testi teatrali, in uno storico discorso nell'aula del Senato il 23 marzo del 1982, poco più di due anni prima della sua morte avvenuta il 31 ottobre del 1984. In quell'occasione Eduardo, senatore a vita (venne nominato il 26 settembre del 1981), rivolse un'interpellanza all'allora ministro di Grazia e Giustizia Clelio Darida, sulla condizione dei giovani detenuti nell'Istituto "Filangieri" di Napoli; una interpellanza nella quale Eduardo parla anche di se stesso e del suo lavoro, rivendicandone in sostanza la valenza sociale, con un misto di umiltà e orgoglio:

"Lasciando da parte i testi scritti durante il fascismo, quando le allusioni alle malefatte sociali e politiche erano, a dir poco, mal viste e quindi i granelli di satira bisognava nasconderli tra lazzi, risate e trovate comiche, a partire dal 1945 in poi non c'è stata commedia scritta da me che - afferma Eduardo - non abbia riflettuto aspetti della realtà sociale italiana". L'autore sceglie poi l'esempio di "Napoli milionaria" dove, si legge nel verbale della seduta, "ho trattato vari problemi del nostro Paese, molti dei quali ancora oggi irrisolti, primo fra tutti la questione morale, poiché solo su una base morale l'uomo attraverso i secoli ha edificato società e civiltà".
"Tenendo conto delle proprie necessità economiche e delle fonti di ricchezza dalle quali dipende il proprio benessere, l'uomo si è sempre creato regole di comportamento etico che ha dovuto poi proteggere con le leggi. È ovvio che queste norme col passare del tempo e con l'accrescersi delle conoscenze scientifiche dell'uomo diventano anacronistiche e vanno cambiate e assieme ad esse le leggi. Il guaio succede - sostiene Eduardo - quando si è costretti a vivere nel vortice sfrenato del consumismo di oggi obbedendo a leggi vecchie e superate. E in questo, a mio parere, consiste la presente ingovernabilità del nostro Paese; insomma ogni santo giorno noi italiani ci troviamo di fronte al solito nostro tempo o fuori delle nostre leggi", prosegue il senatore a vita, tornando poi a "Napoli milionaria" e "alle questioni che con quella commedia ponevo sul tappeto e che sul tappeto sono rimaste. Nel 1945, finito il fascismo, finita la guerra si doveva iniziare la ricostruzione del nostro Paese mezzo distrutto e messo in ginocchio dalla sconfitta. Dice Gennaro Iovine, il protagonista della commedia: "La guerra non è finita, non è finito niente" e al finale "Ha da PASSA' 'A NUTTATA". Attraverso queste semplici parole, semplici ma niente affatto sciocche, il reduce voleva significare che c'era ancora da combattere nemici potenti e agguerriti quali il disordine, la borsa nera, la corruzione, la prepotenza, la disonestà, se si pensava di costruire tutti insieme, governo e popolo, una società nuova, giusta dove il potere svolgesse le sue funzioni. Avevamo perduto la guerra e sentivamo che ci sarebbe stato bisogno di sacrifici per conquistare la libertà e il benessere sociale. In quel periodo, subito dopo la Liberazione, il popolo era pronto a farli i sacrifici - sottolinea Eduardo - ci si sentiva come affratellati dalla speranza che valeva bene qualche privazione per essere pure noi artefici della nostra vita e di quella dei nostri figli. Ma ecco invece che cominciano ad arrivare gli aiuti e non in maniera morale, normale, accettabile e benefica, bensì in quantità esagerata che ha falsato tutto lo sviluppo delle nostre sacrosante aspirazioni. Insomma siamo entrati nella storia del dopoguerra come protagonisti non paganti, come entrano in teatro i portoghesi, che lo spettacolo se lo godono meno di tutti perché non hanno pagato il biglietto. Così noi, non avendo pagato, non abbiamo avuto la soddisfazione di chi si conquista il benessere col proprio lavoro sentendosi soddisfatto di avere collaborato con il governo. Quale è stata la conseguenza? La spaccatura che si è prodotta tra il popolo e la classe dirigente. Mi sembra che in questa "Napoli milionaria" siano stati profeticamente indicati problemi importanti, da prendere in considerazione ancora oggi: il rapporto cittadino-Stato; la necessità di responsabilizzare l'individuo facendolo partecipare attivamente alla ricostruzione della società, che poi di individui è fatta", dice ancora Eduardo De Filippo, prima di tornare alla materia della sua interpellanza al termine della quale, si legge nel verbale della seduta, ebbe "applausi dall'estrema sinistra, dalla sinistra, dal centro-sinistra e dal centro".

Le parole di Eduardo sono tornare a risuonare nell'aula del Senato ieri 31 ottobre, a trent'anni anni dalla sua scomparsa, con una celebrazione che è stata aperta dal presidente Pietro Grasso... a ricordare Eduardo, fra gli altri, il figlio Luca De Filippo che ha letto proprio alcuni passaggi dell'intervento fatto nel 1982 dal padre, poi Silvio Orlando e il grandissimo Toni Servillo.
« ... è stata tutta una vita di sacrifici e di gelo!! Così si fa il teatro. Così ho fatto! ma il cuore ha tremato sempre tutte le sere! e l'ho pagato, anche stasera mi batte il cuore e continuerà a battere anche quando si sarà fermato». (dall'ultimo discorso a Taormina, 1984). E forza Genoa!

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Emerge che... - da Un Cuore Grande Così il 31/10/2014 @ 07:52

Dalla rassegna stampa (e non solo) emerge che il cineasta e scrittore cileno Alejandro JODOROWSKY, 84 anni, ritorna a Genova dopo 11 anni per presentare il suo ultimo film 'La danza della realtà' (La Danza de la Realidad, Cile-Francia 2013) presentato in anteprima a Cannes nel 2013 alla Quinzaine des Réalisateurs. Icona del cinema underground e della controcultura internazionale degli anni '70, Jodorowsky terrà al Teatro della Gioventù il 6 novembre una conferenza spettacolo dal vivo... chi ha visto "El Topo" (Messico, 1970) e "La montagna sacra" (Messico, 1973)? film acidi che ti mandano fuori di testa come il goal di Antonini al '94 in contemporanea con quello di Icardi a Milano... surrealismo, psicomagia, un uomo pazzesco che il 3 dicembre 2005 ha celebrato il matrimonio tra la rockstar Marilyn Manson, suo caro amico, e Dita Von Teese, regina del soft-porno fetish... il libro "Psicomagia, una terapia panica" è una sberla mica da ridere, ricordo ancora quando lessi in un suo testo l'iniziativa che mise in atto insieme ad un compagno di merenda: partiamo per un viaggio, a piedi, andiamo sempre diritti, se sbattiamo in una casa dobbiamo entrarci e passare oltre, anche attraverso le finestre, cioè suoniamo e spieghiamo la questione al padrone di casa che così ci fa entrare, poi andiamo avanti, e così via, ma sempre diritti, se c'è un fiume, lo attraversiamo, anche a nuoto, e proseguire allo stesso modo per settimane intere. Rituzza è tornata a casa, ha smesso per sempre di fumare. E forza Genoa!

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Emerge che... - da Un Cuore Grande Così il 30/10/2014 @ 07:16

Dalla rassegna stampa (e non solo) emerge che in seguito alla goduriosa vittoria di ieri, sono stati scritti un centinaio di post dopo le 23, almeno la metà sono stati cancellati per rendere la pagina "leggibile", i motivi sono sempre gli stessi: post senza foto, post con foto "banale", post inutili... dispiace cancellare, ma la nostra mission è precisa, ricordiamo che è sempre possibile scrivere sotto altri post, senza dover sentirsi obbligati a crearne uno ex novo... stiamo cercando di creare uno spazio più originale rispetto ai soliti di facebook, sappiamo che è difficile, ma vi chiediamo una mano: fate uno sforzo, fatelo per UCGC, grazie! Dopo le polemiche per l'esclusione dal festival di Roma il film su Franco Califano "Non escludo il ritorno", diretto da Stefano Calvagna, arriva nei cinema il 6 novembre. La pellicola racconta aneddoti e dietro le quinte degli ultimi dieci anni di vita del cantante, interpretato da Gianfranco Butinar, imitatore e amico fraterno del "Califfo": "Ho cercato di rappresentare la parte più intima di Franco, la malinconia, la noia, la solitudine, che in pubblico non faceva mai vedere" ha spiegato il regista, che a proposito dell'esclusione dal festival ha detto: "Non voglio riaprire polemiche, il festival è finito, ma forse potevano trovare uno spazio di un'ora e mezza per un'opera come questa, visto che c'è stato spazio per il film sugli Spandau Ballet". La pellicola, low budget, mostra la frustrazione di Califano per i mancati riconoscimenti ufficiali alla sua arte, ma anche l'affetto continuo dei fan, porta sullo schermo la sua ironia e la sua rabbia per non avere a disposizione grandi palcoscenici, almeno fino al concerto trionfale del 18 marzo 2013 al teatro Sistina di Roma, 12 giorni prima della morte. Insieme alla figura del cantante protagonista del film è tutta la sua corte, fatta di amici, fan, agenti, manager, che formarono, fino alla fine, la sua famiglia: "Nel film ho messo tutte cose vere, dal fatto che correva in macchina al sogno di conoscere papa Ratzinger, che non ebbe il tempo di incontrare nonostante gli fosse stata concessa un'udienza privata, all'umiliazione per le polemiche sulla concessione della legge Bacchelli, che lui non sapeva neanche cosa fosse. Il film è un mix di aneddoti simpatici e parti più riflessive" ha concluso il regista. Ciao Rituzza, Antonini goal e forza Genoa!

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Emerge che... - da Un Cuore Grande Così il 29/10/2014 @ 07:21

Dalla rassegna stampa (e non solo) emerge che sapete cos'è l’edema di Reinke? l'avete mai sentito nominare? è responsabile della tipica voce bassa e rauca del FUMATORE, generalmente trascurata per molti mesi o addirittura per anni e nel 97% dei casi rappresenta anche la sintomatologia iniziale. Un altro sintomo caratteristico è il costante abbassamento dell’altezza della VOCE. Predilige la fascia d’ETA' compresa fra i 40-60 anni, con distribuzione fra i due sessi quanto mai variabile. Già Myerson nel 1950 denominò questo particolare quadro clinico “laringite del fumatore”, ponendo così l’accento sull’elemento eziopatogenetico tuttora considerato come il più importante, il fumo di sigaretta; ma accanto a quest’ultimo non vanno trascurati altri elementi, quali: l’abuso VOCALE ed il reflusso gastroesofageo. A livello di DIAGNOSI, il paziente si presenta quasi sempre dall’otorinolaringoiatra per una progressiva modificazione del tono della voce. L’esame otorino standard consente di evidenziare la lesione; un approfondimento diagnostico con laringoscopia aiuta ad escludere la presenza di aspetti clinici che possono far pensare ad un concomitante processo maligno. Circa la CURA, è essenziale l’ASTENSIONE dal fumo di sigaretta, la comparsa dell’edema di Reinke è il segno tangibile di un estremo disagio raggiunto a livello dei tessuti delle corde vocali. La terapia si avvale di trattamento CHIRURGICO di asportazione della lesione e TERAPIA LOGOPEDICA post-operatoria, le finalità della terapia logopedica, che si basa su esercizi vocali e di RESPIRAZIONE, è di ridare il giusto “tono” alle corde vocali indebolite dalla malattia e dallo stress chirurgico. Per circa due settimane dopo l'intervento sarà difficile parlare. Avanti Rituzza e forza Genoa!


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Emerge che... - da Un Cuore Grande Così il 28/10/2014 @ 07:11

Dalla rassegna stampa (e non solo) emerge che ecco l'intervista fatta al Dorchester Hotel di Londra una sera di febbraio del 1982, protagonista Sergio Leone (quindi 2 anni prima del suo ultimo film "C'era una volta in America" e 7 anni prima della sua morte nel 1989 quando aveva 70 anni).

Molti critici stanno prendendo sul serio i suoi film, soprattutto C'era una volta il West. Prima, però, hanno maltrattato a lungo la sua opera.
"Sui giornali m'hanno sempre accusato di copiare i western americani. I critici hanno scritto poi che cercavo di creare una specie di "cinema critico". Si sbagliavano. Io ho dato al western alcune precise convenzioni mie personali che non includevano imitazioni di quello americano. Alle mie spalle ovviamente c'è una cultura di cui non posso sbarazzarmi. Non posso neppure negarla. Per esempio, respiriamo quotidianamente il cattolicesimo anche senza crederci. Ciò traspare forse in certi aspetti dei miei film. È nell'aria. Inoltre , quando faccio un western, ho delle cose da dire. Mentre preparavo Per un pugno di dollari , il mio primo western, mi sentivo in un certo senso come William Shakespeare. Ho scoperto che avrebbe potuto scrivere ottimi western!".

Perché Shakespeare?
"Perché ha scritto alcuni grandi drammi italiani senza aver mai visitato l'Italia e assai meglio degli stessi italiani. A ogni modo, quanto indietro nel tempo vogliamo spingerci? Personalmente sono convinto che il più grande scrittore di western sia stato Omero. Ha scritto storie favolose sulle vicende di singoli eroi come Achille, Aiace, Agamennone, tutti prototipi per i personaggi interpretati da Gary Cooper, Burt Lancaster, Jimmy Stewart e John Wayne. Le storie di Omero sono dei prototipi per tutti gli altri temi western: battaglie, conflitti personali, guerrieri e famiglie, lunghi viaggi. E incidentalmente ha creato anche i primi cowboy. Gli eroi greci basavano le loro vite sull'abilità nel maneggiare lancia e spada, mentre i cowboy si affidavano per sopravvivere all'estrazione rapida della pistola. In fondo è un po' la stessa cosa. Sono grandi miti sull'individualismo. Il guerriero. Il pistolero. Nei miei film poi le donne tendono ad avere un ruolo poco rilevante perché i miei eroi non hanno tempo per innamorarsi o per far loro la corte. Sono troppo impegnati a tentare di sopravvivere. I ruoli femminili nei western di solito tendono a essere ridicoli. È tutt'altra cosa se invece il personaggio femminile è al centro del film, come Claudia Cardinale in C'era una volta il West. In definitiva, credo d'essere riuscito ad accostarmi al western con distacco, da un punto di vista europeo, pur restando un appassionato del genere".

In alcune interviste ha citato tra le fonti italiane dei suoi film le tradizioni dei pupi siciliani.
"Già, quando ho iniziato a girare il mio primo western dovevo cercarmi delle motivazioni psicologiche, non avendo mai vissuto in quel contesto. E mi è venuta in mente una cosa. Era come fare il marionettista dei pupi siciliani. Gli attori vanno in giro su dei carretti e interpretano spettacoli tra lo storico e il leggendario basandosi sulla Chanson de Roland . L'arte del marionettista consiste nel dare a ciascun personaggio una dimensione speciale che coinvolga quel particolare villaggio ove si trovano. Adattano la leggenda al posto in cui si trovano in quel momento. Per esempio, Rolando incarna difetti e virtù del sindaco locale. È l'eroe positivo della storia. Il suo nemico, il cattivo, magari è rappresentato dal droghiere locale. Da regista avevo il compito di fare favole per adulti e mi sentivo come un marionettista con i pupi. Allo stesso modo i marionettisti rendevano più interessanti le storie per gli spettatori locali aggiungendo a un personaggio poco noto al pubblico le caratteristiche d'un vero abitante del posto. È ciò che ho cercato di fare io con il western".

"Favole per adulti": cosa intende?
"Sono film per adulti ma restano favole e hanno l'impatto delle favole. Il cinema per me vuol dire l'immaginario, e l'immaginario si comunica meglio sotto forma di parabola, cioè di favola. Ma non nel senso inteso da Walt Disney. Le sue attraevano in quanto favole interamente inventate, pulite e zuccherose, il che rende le favole meno suggestive. Secondo me le favole catturano l'immaginario del pubblico quando sono ambientate nella realtà anziché nella fantasia. La fusione tra ambienti realistici e storie fantastiche può dare al film un senso mitico, leggendario. C'era una volta...".

Lei ha collegato i suoi film, in particolare Il buono, il brutto, il cattivo, alla tradizione letteraria picaresca, a libri come il Don Chisciotte.
"Nei film d'avventure, e specialmente nei western seri, i registi hanno paura di lasciare che uno spirito picaresco s'intrometta in avventure tragiche. Ma il genere picaresco non appartiene esclusivamente alla letteratura spagnola. Vi è l'equivalente in Italia. Il picaresco e la commedia dell'arte - una tradizione teatrale italiana - hanno molte cose in comune. Non hanno veri eroi rappresentati da un unico personaggio. Prenda Arlecchino nelle commedie di Goldoni: serve due padroni ed è un imbroglione. Si vende a un padrone e poi all'altro senza che i due lo sappiano. Non è un "vero eroe". Idem Clint Eastwood ne Il buono, il brutto, il cattivo . Il mio retroterra, la mia formazione, contengono aspetti che mi hanno influenzato e che non hanno nulla a che fare con il western ".

A proposito di Eastwood: come l'ha scoperto?
"Di Clint mi hanno affascinato la sua figura e la sua personalità. L'avevo visto in un telefilm della serie Rawhide e l'ho preso perché all'epoca James Coburn costava troppo. Guardando Incident of the Black Sheep ho notato che Clint parlava poco, però ho notato anche il modo pigro, distaccato con cui entrava in scena e senza alcuno sforzo rubava ogni inquadratura a Eric Fleming. Quando abbiamo lavorato assieme era come un serpente, andava a fare un pisolino a cento metri di distanza, arrotolandosi sul retro d'un auto o sul set. Poi si svegliava srotolandosi e stendendo le braccia. Mescolando questo atteggiamento con le esplosioni e la velocità degli spari si ottiene quel contrasto essenziale che ci ha apportato. Così abbiamo costruito il personaggio via via, anche a livello fisico, mettendogli la barba e il piccolo sigaro in bocca che non fumava mai. Quando gli è stato offerto il secondo film, Per qualche dollaro in più , mi ha detto: "Leggerò la sceneggiatura, verrò a fare il film, ma per favore, ti supplico, una sola cosa: non mettermi di nuovo il sigaro in bocca!". E io: "Clint, non possiamo lasciar perdere il sigaro, il protagonista è lui!"".

Perché ha deciso d'adottare uno stile cinematografico diverso per C'era una volta il West?
"Il ritmo del film doveva creare il senso degli ultimi respiri d'una persona che sta morendo. Una danza di morte dall'inizio alla fine. Tutti i personaggi del film tranne Claudia sanno che non giungeranno vivi al finale. E io volevo che il pubblico s'immedesimasse per tre ore con i personaggi che vivevano e morivano, come se avessero passato dieci giorni con loro. Il ritmo - tempi brevi, tempi lunghi - è come l'ultimo respiro. Lo stile era in un certo senso una reazione. Volevo fare un film per me stesso anziché per il pubblico. Ricordo bene che, quando è uscito a Roma, un fruttivendolo che lavorava vicino a Piazza Venezia è venuto a dirmi: "Leone è impazzito, non riesce più a dire una cosa in modo diretto. L'America deve averle fatto un pessimo effetto!"".

Qual è stata la sua influenza sul western americano?
"Sam Peckinpah mi ha detto che Il mucchio selvaggio non sarebbe stato possibile senza i miei film. Fino a un certo momento i western sono stati una specie di gioco infantile, i personaggi morivano cadendo in avanti invece d'essere spinti all'indietro. Le pallottole li penetravano senza lasciare traccia. Credo che Per un pugno di dollari abbia introdotto una svolta nella rappresentazione della violenza, e che abbia introdotto una forma di realismo che adesso si può usare in questi film. I produttori in passato non pensavano che si potesse farlo. In questo senso i miei film non hanno influenzato solo i western ma anche altri film. Stanley Kubrick non avrebbe fatto Arancia meccanica senza questa svolta. Non solo riguardo alla violenza ma anche riguardo al coltivare il verismo per raccontare una favola. Mentre stava preparando Barry Lyndon Kubrick mi telefonò: "Ho tutti gli album di Ennio Morricone. Mi spiega perché mi piacciono solo le musiche che ha composto per i suoi film?". Gli risposi: "Non si preoccupi. Io non consideravo granché Richard Strauss finché non ho visto 2-001 Odissea nello spazio" ".

Credo che C'era una volta il West sia stato il film che ha avuto l'impatto maggiore sulla generazione anni Settanta di Hollywood...
"Forse. Hanno ambientato i loro film nel futuro ma tanti erano veri western. Quando ho visto, ad esempio, la sequenza iniziale di Incontri ravvicinati del terzo tipo di Steven Spielberg ho pensato: "È girata da Sergio Leone". La polvere, il vento, il deserto, le pianure, improvvisamente le note per archi nella colonna sonora. Anche Fuga da New York di John Carpenter dicono sia stato influenzato dai miei primi western. George Lucas mi ha detto che si era continuamente riferito alla musica e alle immagini di C'era una volta il West montando Guerre stellari, che era un vero western - di serie B - situato nello Spazio. Tutti quei giovani registi di Hollywood, Lucas, Spielberg, Scorsese, Carpenter, hanno detto di sentirsi in debito nei riguardi di C'era una volta il West . Forse gli è piaciuto perché è davvero l'opera di un regista. Però nessuno di loro ha tentato di fare un western che sia un western. Alcuni fanno film evidentemente americani ma con un'ottica europea. Questa contaminazione ha prodotto risultati eccellenti. Ammiro in particolare i film di Spielberg, assai più significativi di quanto appaiono".

Ha mai avuto la tentazione di fare un film sull'Italia ambientato nel presente?
"A me piace fare film spettacolari. Pur essendo una grande nazione di alto profilo, purtroppo l'Italia non offre granché in termini internazionali. Uno dei motivi che mi hanno spinto a fare western era perché fanno parte d'una tradizione perduta dagli stessi americani. Adesso appartiene a noi tutti. Il western è un bene di consumo in Giappone, Nigeria, Colombia, Inghilterra, Italia, Germania e Francia, un po' ovunque. Appartiene al mondo. Ma d'altra parte l'Italia ha un grosso problema. Prenda ad esempio un bel film come Il gattopardo di Visconti. È incomprensibile in America. Visconti ha fatto un lavoro meraviglioso ma è stato un flop in America. Purtroppo, quando si scrive una storia sull'Italia riguarda solo l'Italia. In America invece, anche nella città più piccola, si può scrivere del mondo. Perché? Perché è un agglomerato di tutte le altre comunità. In America si può trovare il mondo. Voglio dire il mondo con tutti i suoi usi, difetti e punti di forza. Come europeo, più conosco l'America e più mi affascina. Pur sentendomi lontano anni luce dall'America".

E forza Genoa!

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Emerge che... - da Un Cuore Grande Così il 27/10/2014 @ 07:38

Dalla rassegna stampa (e non solo) emerge che vogliamo ricordare quando il cuore di tenebra si sbriciolò di notte, quaran'anni fa. Cadde a terra, e fece un rumore pazzesco. Quello del secolo. Spazzò via le linee d'ombra sul fiume Congo. Era il 30 ottobre, a Kinshasa, Zaire. Quel cuore diventò più nero e africano. Per la prima volta un ring fece meglio e più di Shakespeare: illuminò una tragedia, spiegò uomini e continenti, rivoluzionò sport e società. È passato alla storia come "Rumble in the Jungle". Ali-Foreman era il campionato del mondo dei pesi massimi. Fu molto di più. Guerra estetica, esistenzialista, religiosa (per Norman Mailer). Inno alla negritudine. Per la prima volta i protagonisti erano tutti neri: dal paese, all'arbitro, all'organizzatore, ai contendenti, agli spettatori. Un total black mai visto. E molto azzardato per i tempi. Ali, trentadue anni, tornato a combattere da quattro stagioni, era lo sfidante. Il titolo non lo aveva perso sul ring, ma gli era stato tolto nel '67 per il suo rifiuto ad arruolarsi contro il Vietnam. George Foreman, venticinque, era il campione giovane, imbattuto, e grande favorito. Aveva uno sguardo torvo che è diventato gioviale. Oggi Big George ha sessantacinque anni, molte vite, affari, cinque mogli, dieci figli, tanti milioni in banca, e una bella circonferenza. Veste da businessman. Ha fatto fortuna vendendo bistecchiere che eliminano il grasso. È sceso dal ring nel '97. Con altra fama e rispetto da quando c'era salito. Lui quella notte perse tutto. E non ci era abituato. Quei ventiquattro minuti lo hanno fatto barcollare per vent'anni. E poi gli hanno insegnato a stare di nuovo in piedi.

Com'era Kinshasa nel '74?
"Stavo in albergo, mi allenavo, non andavo in giro. Ero ignorante: non sapevo fosse l'ex Congo belga, che la città prima si chiamasse Leopoldville, né che Mobutu avesse preso il potere nel '65. Ero all'oscuro delle carestie, del fatto che il 65 per cento della popolazione fosse analfabeta. Non ero il solo. Qualcuno provò a mandarmi un pacco da Washington e l'impiegato chiese: lo Zaire è un'isola nel mar del Giappone?".

Spike Lee, il regista, dice che a quei tempi dire africano era un insulto.
"Bè non era un complimento. A chiamare africano un nero rischiavi il pestaggio. I neri erano scimmie che dovevano tornare in Africa, nella foresta. Lo pensavano in molti. Africano equivaleva a primitivo e selvaggio. Gli americani avevano il progresso, invece l'Africa era una giungla. A me lì mancavano soprattutto i miei amati cheeseburger. Kinshasa era stata ripulita. Scrissero che Mobutu aveva radunato nel nostro stadio i peggiori criminali e ne aveva fatti fuori parecchi. Eliminò anche chi aveva sbagliato a stampare il suo nome nei biglietti, una o al posto della u, e zac, niente più vita. Don King, l'organizzatore, dovette cambiare poster pubblicitario. Il primo recitava: "Dalla nave degli schiavi al mondiale"".

Lei scese dall'aereo a Kinshasa accompagnato da un pastore tedesco.
"Era un volo Pan-Am. Il cane si chiamava Dago. Viaggiò con me in prima classe, seduto accanto, me lo permisero. Invece quando andai a Kingston, in Giamaica, per l'incontro con Frazier, non me lo fecero portare".

Quei cani non erano un bel ricordo.
"Ancora? Hanno scritto che erano i cani della polizia belga e che la gente ne era terrorizzata. Non è vero, Dago giocava con gli africani, nessuno ne aveva paura. E io che avrei dovuto dire quando Mobutu mi regalò un leone?".

Ali si acclimatava, lei si tuffava nell'aria condizionata.
"E che male c'era? Avevo già combattuto in Giamaica, non al Polo Nord. E da un anno mi svegliavo alle tre del mattino per ricreare la stessa situazione del match. In allenamento il mio sudore lasciava macchie di due metri sul pavimento. Ali fu più abile di me: lui sembrava il nero, io il bianco. Eppure il mio staff era nerissimo, il suo invece bianco. Il suo allenatore Dundee e Pacheco, il medico, non avevano mica la pelle scura. Io però non ero un bel tipo: sempre scontroso, minaccioso, arrabbiato".

E ai Giochi del '68 aveva sventolato le bandierine americane dopo i pugni neri di Smith e Carlos.
"Mi diedero del servo. Avevo appena vinto l'oro e volevo dire che amavo il mio paese. Erano anni di contestazione per i diritti civili. Giusto e sacrosanto protestare. Ma ci deve essere la libertà per tutti. E io non ho fatto sport per diventare agitatore politico. E nei ghetti i ragazzi non giocano a basket e football per dare voce alle critiche sociali. Lo fanno per divertirsi, non per le buone azioni. Non mi pento di quel gesto, anzi ne sventolerei sei di bandierine. Ma passare per uno che non ha conosciuto povertà e ingiustizie, questo è troppo. Mia madre era sola, faceva la cuoca per mantenere noi sette figli, al lavoro non gli era permesso mangiare il cibo che cucinava".

Sua madre Nancy gliele dava?
"Sì, per farmi rigare dritto. Cinghiate, si sedeva sopra di me e mi teneva fermo con la lotta. Ero alto e grosso, immobilizzarmi non era facile. Povera mamma, non voleva bugie. E io non ero uno stinco di santo. A Houston, avevamo un buco a Fifth Ward, il ghetto che tutti chiamavano Bloody Fifth. Drogati, spacciatori, assassini. Mi ubriacavo, spaccavo vetri e taglieggiavo chiunque passasse da quelle parti. Non mi servivano armi. Bastavo io. Il mio idolo era Sonny Liston. Volevo essere come lui. Cattivo, sbagliato, spregevole".

Ci è riuscito.
"Fino a quella notte. Sono salito sul ring assolutamente convinto di essere invincibile. L'avrei pestato e ammazzato a quello, ne ero sicuro. Mai sfiorato dal dubbio. Avevo appena massacrato Frazier per ko, l'avevo spedito al tappeto sei volte in 275 secondi. Ero il campione del mondo. Tanto che quando Ali disse che stava raccogliendo soldi per un ospedale risposi di non preoccuparsi: ce l'avrei mandato io. Ken Norton aveva appena fratturato la mascella di Ali, a me nessuno aveva mai fatto male. Lui era vulnerabile, io no".

Ali era musulmano, lei si allenava con i gospel.
"Sì, ma non leggevo la Bibbia, anche se l'avevo portata, per me erano solo stupidaggini. Ascolti, ora le canto What a Friend You Have in Jesus di Aretha Franklin. Dio, che bella canzone. C'è quella strofa che fa: who will all our sorrows share?"

Se la cavava bene anche a cazzotti.
"Mi bastava un colpo per abbattere. Un vandalo con i guantoni. Prepotente e devastante. In allenamento sparavo cinquanta pugni al minuto. Per una ripresa di tre minuti fanno centocinquanta pugni consecutivi. Adesso mi chiederà se quel coro: "Ali, boma ye!", "Ali uccidilo", mi ha fatto male dentro. La verità è che non l'ho udito. Allo stadio c'erano cinquantamila persone. Io ero come autistico, allora. Però quando lo picchiavo con tutto quello che avevo l'ho sentito sfottermi: "Tutto qui, George?". Era la settima ripresa. Io ero stanco, lui sfiancato, ma provocava".

Ali invase l'Africa, lei la subì.
"All'ottava ho pensato: lo faccio venire avanti, appena si scopre, lo metto ko. Il suo destro mi ha preso in contropiede, sono finito a gambe all'aria, e quando ho sentito l'arbitro dire "otto" era troppo tardi. Ali ha parlato di strategia. Per me ne aveva solo una: sopravvivere. Non inseguo più altre interpretazioni. Ali è una persona e un uomo straordinario. Il più grande di tutti. Ho perso da un campione immenso. Nel '96 agli Oscar l'ho aiutato a salire i gradini. È stato un onore, non una vendetta per la sua sciagura fisica".

Come fu il suo dopo?
"Terribile. Peggio di un funerale. Tutto che quello che volevo e avevo non c'era più. Essere campione del mondo era l'unica mia identità e ora non ero più nessuno. Ero senza pace. Andai a Parigi, provai con il sesso, con le donne. Comprai tigri, leoni, ville, sfarzo, ma non funzionò. Tornai a casa per scoprire che anche mio zio e mio cugino mi avevano puntato contro. La mia famiglia aveva scommesso contro di me. L'attore Bob Hope, che prima mi aveva invitato in molte trasmissioni, fece finta di non conoscermi e non mi chiamò più. Mi accorsi di essere inviso. Comprai una Rolls, perché mi seccava rientrare nel mio quartiere senza gloria. Ma il colpo più duro me lo diede mia sorella Gloria: "Non ti sei accorto che sei diverso da noi?" Le chiesi in che senso. "Non ci assomigli perché il tuo padre biologico è un altro. Si chiama Leroy Morehood, è un veterano di guerra". Andai a conoscere il mio vero papà, giusto in tempo prima che morisse".

Non c'è mai stata la rivincita con Ali.
"La volevo, eccome se la volevo. L'ho inseguita per anni. Ma Ali non me l'ha mai data. È il più grande, mica il più matto. Non sto dicendo che abbia avuto paura, Ali non è quel tipo, e la sua storia lo dimostra, anche se sta male resta un eroe importante per l'America. Però conveniva che era meglio non affrontarmi".

Nel '77 lei ha avuto una visione.
"Sì, Dio mi è apparso. In uno spogliatoio di Portorico, avevo appena perso ai punti con Jimmy Young. La mia testa perdeva sangue. Sono morto e risorto. Mi sono messo a baciare tutti sulla bocca, pensavano che non ci fossi più con la testa ".

Allucinazioni per forte disidratazione, disse il medico.
"Dio mi dava la pace e mi indicava la strada. Bisognava avere fede. L'ho avuta e mi sono messo a predicare. Ho venduto la Rolls, la villa a Beverly Hills, ho regalato le mie quindici tv, ho aperto una casa per la gioventù, mi sono preso cura dei ragazzi. E ho lasciato la boxe. Preferivo il titolo di reverendo".

Dieci anni dopo è tornato sul ring.
"A quarantasei anni. Avevo contro tutti. Dicevano che ero troppo vecchio, lento, grasso. Come un destino all'incontrario ho rivissuto il match con Ali, ma stavolta nei suoi panni c'ero io. Invece nel '94 batto Michael Moorer, che poteva essere mio figlio, e divento campione mondiale dei massimi. Venti anni dopo Kinshasa. Indossavo gli stessi calzoncini di velluto rosso di allora. È stato bellissimo. Avevo più grazia, ero meno animale, più consapevole. Come se avessi imparato da Ali a ballare un po' anch'io. Mi sono inginocchiato, ho pregato, ho pensato a quella notte africana che mi aveva fatto soffrire così tanto. Non esisteva più, tutto quel dolore per niente. Era stata solo una grande occasione che io non avevo capito. Se l'avessi fatto, avrei abbracciato Ali e gli avrei detto che quella notte era un'alba che ci apriva un grande futuro. Per questo gli voglio bene. Non è più un nemico. Condannandomi, mi ha fatto rinascere. Non rinnego quel Foreman pieno di odio e di rabbia, è un altro me, ma mi trovo meglio ora. Certo, quando vedo i miei figli che non riescono nemmeno a pronunciare bene la parola poor, povero, e quando sento che si ritengono tali perché hanno un solo cellulare, penso che non si rendono conto della vera miseria in cui sono cresciuto io".

I suoi cinque figli maschi si chiamano George.
"Eh sì, anche se hanno soprannomi, c'è sempre un po' di confusione quando si pronuncia quel nome. Anni fa scherzando dissi che era più comodo per quando avrei perso la memoria, in realtà credo sia dovuto al trauma di aver saputo che mio padre era un altro. Voglio che non abbiano dubbi, è sempre Big George ad averli generati".

L'Africa non ha più avuto una notte così.
"Nemmeno io. E forse nemmeno il secolo. Nella mia carriera ho una sola sconfitta per ko. Quella. In ottantuno incontri sono stato dominato solo una volta. Quella. È stata la mia salvezza. E voglio festeggiarla. Chiamerò Ali e gli dirò grazie".

E forza Genoa!

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Emerge che... - da Un Cuore Grande Così il 26/10/2014 @ 07:30

Dalla rassegna stampa (e non solo) emerge che venticinque anni fa, il 9 novembre del 1989, crollò il Muro di Berlino. Fu l'evento che costituì la premessa indispensabile per la riunificazione della Germania e rappresentò in modo materiale, visivo, nei picconi della gente che accorse a demolirlo, la fine del comunismo e della contrapposizione dei blocchi in cui era diviso il pianeta dopo la II guerra mondiale. Col Muro di Berlino finì la Guerra fredda. Quando qualche giorno prima, il 18 ottobre, Erich Honecker, il capo di Stato e del partito comunista nella DDR, si era precipitosamente dimesso, lasciando il posto a Egon Krenz, il nuovo Presidente del Consiglio di Stato aveva annunciato una svolta, 'Wende', che in realtà non aveva affatto capito: disse infatti di essere entrato in carica "per mantenere la sovranità statale della Ddr". Diecimila tedeschi dell'est avevano però già lasciato il Paese, per fuggire in occidente attraverso l'Ungheria, o tentando la fortuna con metodi a dir poco avventurosi: c'è un piccolo prezioso 'museo della fuga' che li racconta a Berlino. E altre decine di migliaia protestavano ogni giorno nelle piazze della città della Repubblica democratica tedesca, per chiedere pace e libertà, con lo slogan "Wir sind das Volk!", "Noi siamo il popolo!". Un fiume umano fu artefice della oggi celebrata 'rivoluzione pacifica', che avrebbe portato, di lì a qualche giorno, a gridare "Wir sind ein Volk!", "Noi siamo un popolo!". Nonostante si fosse smantellato il Politburo della Sed, nessuno in Germania aveva previsto l'epilogo. Che arrivò in una conferenza stampa in cui il regime, attraverso il ministro della Propaganda Guenter Schabowski, annunciò improvvisamente un'apertura: la libertà di viaggio verso l'ovest. Un giornalista italiano, il corrispondente dell'epoca dell'ANSA, Riccardo Erhman, pose una domanda: da quando sarà in vigore la legge? "Da subito", fu la risposta. Le agenzie di stampa batterono queste parole, e il popolo inondò il confine: quel Muro lungo 155 km, eretto in una notte (fra il 12 e il 13 agosto del 1961, per mettere freno all'esodo verso l'ovest), fu cancellato dalla 'faccia' della città. Quel che seguì, la riunificazione tedesca, il 3 ottobre del 1990, fu il capolavoro politico del cancelliere Helmut Kohl. Fra qualche giorno, a scendere in piazza per una grande festa popolare, alla Porta di Brandeburgo, epicentro del terremoto che travolse il cordone di cemento che impediva di vedere il retro della quadriga a chi ce l'avesse di fronte, saranno i nuovi tedeschi. Dov'ero io quel giorno? ricordo come fosse oggi quella notizia e lo stupore, ancora ora penso che un viaggio a Berlino dovrebbero farlo tutti. E forza Genoa!


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Emerge che... - da Un Cuore Grande Così il 25/10/2014 @ 08:33

Dalla rassegna stampa (e non solo) emerge che "Il giovane favoloso" di Martone continua la sua cavalcata e anche ieri ha ottenuto un risultato pazzesco, piazzandosi al secondo posto dietro "Guardiani della galassia" della Walt Disney (proiettato però in 671 sale), con altri 189.611 euro e 32.382 paganti (in 271 sale), annichilendo anche la solita commedia acchiappasoldi "Soap Opera" con Fabio De Luigi, Cristiana Capotondi, Ricky Memphis proiettato in ben 394 schermi e con un incasso di 141.000 euro... ora il totale del film su Leopardi ha raggiunto quasi quota 1.900.000 euro, e nel weekend si può sperare di salire ancora parecchio. Ieri il regista Martone era a Genova, chi ha avuto il piacere di poterlo sentire nei suoi interventi ai cinema America e Sivori ha capito sicuramente il senso di questi Emerge che, perchè questa è una lotta contro l'ignoranza dilagante, la massificazione generale verso il basso, la perdita di talenti; infine, un invito alla ribellione culturale. Grazie Mario, e forza Genoa!

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Emerge che... - da Un Cuore Grande Così il 24/10/2014 @ 07:38

Dalla rassegna stampa (e non solo) emerge che il miracolo continua, e cresce: il film sulla vita di Giacomo Leopardi, Il giovane favoloso di Mario Martone, sta sbancando e ha addirittura superato negli incassi "E fuori nevica" di Salemme, arrivando a quota 1.555.000 euro d'incasso per circa 250.000 paganti in soli 7 giorni di programmazione (dati aggiornati a mercoledì scorso). Son numeri importanti e del tutto fuori previsione, numeri da altro tipo di film, non certo un prodotto italiano di ben 135 minuti con ritmo lento e confezione raffinata... forse è la prima volta che accade un fatto di questo tipo, cioè che un film d'essai, impegnato e impegnativo, spacca il box office e distrugge i concorrenti. E chi poteva immaginare tanto interesse verso un poeta nato nel 1798 e morto nel 1837, che si chiama Giacomo Taldegardo Francesco di Sales Saverio Pietro Leopardi? Tra l'altro, oggi il regista Martone sarà a Genova, presenziando al cinema America prima dello spettacolo delle 18.00 e delle 21, e al cinema Sivori prima dello spettacolo delle 18.45... un'occasione imperdibile per apprezzare le qualità umane e culturali di Martone. E Gasperini? scordiamoci il passato, forse la difficoltà sta nel dover accettare che stiamo parlando di un allenatore normale, che non aggiunge e toglie nulla, oggi inferiore a gente come Mihajlović, Ventura, Montella: se hai una squadra da 45 punti, con lui alla fine viaggerai in una forbice tra 42 o 48, un allenatore come tanti altri di questa fascia, un onesto mister da 6 in pagella, c'è di peggio e c'è di meglio, galleggiamo, come da 4 anni a oggi... minchia, come mi manca Jep Gambardella! E forza Genoa!

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Emerge che... - da Un Cuore Grande Così il 23/10/2014 @ 07:29

Dalla rassegna stampa (e non solo) emerge che mentre ieri abbiamo dato l'addio a Lilli Carati, emblema di un'epoca quando ancora le donne che comparivano sul piccolo e grande schermo non potevano/volevano rifarsi come orrende malate saponette di gomma... oggi facciamo vedere cosa è diventata Renée Zellweger, mortificata dalla chirurgia estetica, era quella de "Il diario di Bridget Jones", "Chicago", "Jerry Maguire", "Ritorno a Cold Mountain", "In amore niente regole", "Cinderella Man", "Miss Potter", "Appaloosa": dove stanno andando le donne? E forza Genoa!

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