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Emerge che... - da Un Cuore Grande Così il 22/05/2015 @ 07:12

Dalla rassegna stampa (e non solo) emerge che Pac-Man, la voracissima sfera gialla icona dei videogiochi Arcade, compie 35 anni. Un compleanno che il 22 maggio Sony Pictures celebra con eventi in tutto il mondo, da Tokyo a Chicago, da New York a Parigi, nell'attesa di Pixels, il film in 3d diretto da Chris Columbus con Adam Sandler, Peter Dinklage, Josh Gad e Michelle Monaghan, in uscita il 29 luglio distribuito da Warner Bros. "Pac-Man è uno dei personaggi 8-bit più famosi della storia e noi volevamo festeggiare e ricordare il suo 35° compleanno - ha detto Josh Greenstein, presidente per Sony Pictures -. Siamo felici che sia parte di Pixels e siamo desiderosi di vederlo in azione, prima del debutto però lo celebreremo al meglio". A Tokyo, città natale di Pac-Man, i fan potranno partecipare all'evento allestito alla Tokyo Tower ed entrare così nel Guinness dei primati creando la più grande riproduzione "umana" del videogioco. A questa sfida parteciperanno anche gli attori giapponesi Yanagisawa e Watanabe. Il creatore di Pac-Man, Toru Iwatani sarà invece a Chicago per una serie di eventi in stile anni '80, tra cui il panel a cui parteciperà anche Billy Mitchell, primo giocatore ad aver realizzato il 'perfect score' al videogioco. "È difficile credere che siano passati 35 anni da quando abbiamo creato Pac-Man - ha spiegato Iwatani -. Volevamo creare qualcosa che durasse nel tempo, ma tutto ciò ha superato ogni nostra aspettativa. Personalmente sono anche orgoglioso che il nostro personaggio abbia un ruolo importante in Pixels, gli effetti visivi del Pac-Man gigante per le strade di New York saranno straordinari, qualcosa di mai visto fino ad ora. Il mio augurio per questo compleanno è che Pac-Man continui a divertire". In 75 città del Nord America la catena di ristoranti Dave & Buster's contribuirà ai festeggiamenti con una speciale partita multi giocatore, la Pac-Man Battle Royale. Nel Regno Unito una sfera gialla ispirata al personaggio di Iwatani verrà lanciata nello spazio e il suo viaggio verrà ripreso con una speciale videocamera GoPro. Ancora tanto altro in Spagna, Francia e Parigi dove, in occasione degli internazionali di Francia 2015 -Roland Garros, Serena Williams, presente in Pixels con un cameo, dedicherà un particolare saluto ai fan di tutto il mondo.

Ben 6.500 biglietti staccati finora, 23.000 paganti già garantiti a 36 ore dalla partita sono una cifra di tutto rispetto, con l'obiettivo raggiungibilissimo di superare quota 25.000. Se si fosse giocato domenica e con i conti in ordine, a che cifra saremmo arrivati? Ci sono molti genoani che vogliono salutare e ringraziare questa squadra, poi l'ultima a Sassuolo e tutto finirà, con il solito folle calciomercato e l'impossibilità di giocare in Europa perchè la Società non ha risposto ai minimi canoni richiesti dall'UEFA. Così è, se vi pare. Sotto, particolare di Inter-Genoa 1982-83. E forza Genoa!

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Emerge che... - da Un Cuore Grande Così il 21/05/2015 @ 07:13

Dalla rassegna stampa (e non solo) emerge che mentre la notizia del grave ferimento di Mutlu Kaya fa il giro del mondo, la polizia turca sembra aver individuato nel suo fidanzato il sospettato numero uno del tentato omicidio della 19enne concorrente di un talent televisivo. Un'indagine delicatissima per l'immagine del Paese, perché finita ormai sotto i riflettori della stampa internazionale. Secondo l'ipotesi investigativa, è stato lui, Veysi Ercan, 26 anni, a penetrare nelle prime ore del mattino del 18 maggio nel giardino della casa di Mutlu nel distretto di Ergani, provincia di Diyarbakir, e a fare fuoco attraverso una finestra mentre lei stava provando nel cuore della notte le sue canzoni. Ercan era stato fermato ieri, oggi la conferma dell'arresto da parte del giudice penale di pace del distretto. Lo stesso giudice ha ordinato il rilascio di altri tre sospettati.

Dalle prime indicazioni emerse dalle indagini, Ercan si trovava nei pressi della casa della fidanzata alle 3 del mattino, l'aggressione è avvenuta circa mezz'ora dopo. Il giovane ha confermato la circostanza, ma ha negato con fermezza di aver premuto il grilletto, affermando invece che quella notte era ubriaco. La polizia ha impiegato diverse ore a rintracciarlo. Il giovane aveva spento il cellulare e si era allontanato da Ergani, giustificando poi il suo comportamento come un modo per sottrarsi al prevedibile confronto con la famiglia della sua ragazza. "Non è stata una fuga e non sono corso in ospedale perché ero preoccupato della reazione dei suoi cari".

Colpita alla testa da un proiettile, Mutlu Kaya versa in condizioni critiche nel reparto di terapia intensiva di un ospedale di Diyarbakir, principale città della comunità curda a sud-est della Turchia. La testimonianza resa al magistrato da Veysi Ercan cambia decisamente il quadro della vicenda presentato dai media. Si è detto e scritto di una vendetta del clan del padre della ragazza per il disonore arrecato alla famiglia dalla sua partecipazione allo spettacolo televisivo. Pista su cui, in fondo, era stata la stessa Mutlu a indirizzare gli inquirenti: la 19enne aveva ricevuto minacce attribuite al ramo paterno della parentela e ne aveva parlato alla produzione del talent, dicendosi spaventata. Ma poi aveva deciso di non mollare lo show. Invece, secondo quanto dichiarato da Ercan, citato da Hurriyet, "la famiglia voleva che Mutlu partecipasse alla gara canora, ero io che non volevo. Ed è anche vero che io e Mutlu abbiamo litigato spesso per questo. Ma non sono stato io a spararle".

Ercan ha quindi aggiunto un'ulteriore tessera al suo mosaico difensivo: in precedenza, aveva convinto la ragazza a rinunciare a un altro talent show, O Ses Türkiye, la versione turca di The Voice, ma Mutlu poi si era rifiutata di dire no anche al meno popolare Sesi Çok Güzel, perché incentivata dalla prospettiva di una brillante carriera. Quella che le aveva assicurato la famosa cantante folk Sibel Can, incontrandola il 30 marzo per convincerla a diventare una concorrente del talent e a entrare nel suo team. Quello che Ercan non ha invece detto, ma è stato appurato dalla polizia, è che Kaya quattro mesi fa, quindi ben prima della sua apparizione televisiva, a metà aprile, aveva già sporto denuncia contro il giovane per intimidazioni e minacce.

Quanto al possibile imbarazzo del papà, assente in trasmissione, e all'irritazione del suo clan come possibile movente di un tentato "delitto d'onore", con l'arresto di Veysi Ercan questa ipotesi perde consistenza. Anche per altri elementi. Dopo il grave ferimento di Mutlu, la famiglia ha allontanato da sè con indignazione l'ombra del sospetto, dicendosi "orgogliosa" della ragazza. Poi, il fatto che i familiari sapessero della scelta di Mutlu da tempo. Nella sua azione persuasiva, il 30 marzo Sibel Can aveva voluto incontrato la madre della 19enne: "Sua figlia ora appartiene a me - le avrebbe detto, secondo la ricostruzione di Hurriyet - . Lei ha un grande talento, la prima volta che l'ho sentita cantare mi sono detta: è lei! La proteggerò e le darò tutto il mio sostegno". Implicita conferma a questa sorta di patto tra la celebrità del folk e l'umile famiglia curda, le poche parole pronunciate dal papà di Mutlu dopo il dramma: "Voglio solo che mia figlia stia bene. E mi aspetto un grande aiuto da Sibel Can, che per Mutlu è ormai come una madre".

Cambiano i protagonisti, in negativo, della vicenda, non lo sfondo: il difficile presente delle donne in tutta la Turchia, non solo nella comunità curda più arretrata, dove si assiste alla recrudescenza di atti di violenza e prepotenza contro la figura femminile, soprattutto in reazione al suo desiderio di decidere da sola. Le cifre diffuse dalla piattaforma Stop Women Homicides: 294 donne assassinate nel Paese nel 2014, 91 dall'inizio del 2015. La Turchia del presidente di ispirazione islamista Recep Tayyp Erdogan, convinto assertore che "l'uomo e la donna non sono uguali".

Non solo le squadre di media e alta classifica hanno ricevuto ieri il pass dall'Uefa, ma anche Sassuolo, Udinese, Verona e Atalanta. Anche alla luce della seconda bocciatura europea e dell'infortunio di Borriello (che con Niang e Perotti sarà quindi assente per il rush finale, che pacco il suo ritorno!), vediamo se mister Gasperini saprà ripetere il miracolo di Bergamo. Sotto, ciao Roby, come stai? bene!!! E forza Genoa!

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Emerge che... - da Un Cuore Grande Così il 20/05/2015 @ 07:46

Dalla rassegna stampa (e non solo) emerge che per protesta non si giocherà la finale di Coppa Italia di calcio femminile tra il Brescia e il Tavagnacco, in programma sabato prossimo. La decisione è stata presa da Aic e Aiac al termine dell’incontro di oggi a Milano fra calciatrici e tecnici, in rappresentanza delle squadre di A e di B, per discutere della situazione in cui versa il calcio femminile, dopo la polemica per le dichiarazioni del presidente della Lega Dilettanti, Belloli. Aic e Aiac sollecitano le dimissioni del presidente Carlo Belloli, finito nella bufera per le dichiarazioni sul movimento femminile (“basta con queste quattro lesbiche” le sue parole), e sottolineano che “è giunto il momento, dopo 30 anni di inefficienza e immobilismo, di dare autonomia al calcio femminile uscendo dalla Lega Nazionale Dilettanti. Ciò permetterebbe di gestire tutto il movimento dal vertice alla base attraverso una filiera unica”. Infine, le componenti tecniche chiedono con forza alla Federcalcio “di essere coinvolte in maniera attiva in questo processo di cambiamento”. "Se vogliono che mi dimetta, io mi dimetto": così avrebbe confidato ad amici Felice Belloli, leader (si fa per dire) della Lega Nazionale Dilettanti e nella bufera da giorni per la frase sulle "quattro lesbiche". Una situazione che imbarazza Carlo Tavecchio, già alle prese col caso Macalli, il n.1 della Lega Pro squalificato per sei mesi. Domani c'è un direttivo della Lega Dilettanti, che è molto spaccata al suo internno: Belloli verrà sfiduciato? Arriverà il commassario? Non è ancora detto: qualche dirigente di viale Flaminio vorrebbe prendere tempo, e aspettare la conclusione dell'inchiesta di Palazzi (speriamo sia rapido). Altri premono per una soluzione rapida. Di sicuro, Belloli ha dei nemici all'interno della sua Lega. Le calciatrici italiane danno "per scontate le dimissioni" del presidente della Lega Nazionale Dilettanti Felice Belloli, chiedono "di avere una lega autonoma" ed invitano i colleghi a "un gesto di solidarietà, anche solo un Tweet, per mostrare che il mondo del calcio é unificato". Lo ha chiarito Patrizia Panico, attaccante del Verona e della Nazionale. "Vogliamo un incontro con Tavecchio, giocheremo la finale di coppa Italia solo se verrà detto pubblicamente che dobbiamo diventare autonome - ha spiegato la giocatrice -. Abbiamo chiesto all'Aic di coinvolgere anche i ragazzi, che esprimessero la loro solidarietà anche con un tweet. L'avevo sollecitato anche settimana scorsa ma chi per un motivo e chi per un altro non l'hanno fatto. A parte Gabbiadini, perché sua sorella é una calciatrice".

Dopo questa chicca sul calcio femminile, ieri è scoppiato lo scandalo delle serie minori, con una cinquantina di arresti e la conferma dell’esistenza di due diverse associazioni criminali in grado di alterare i risultati degli incontri di Lega Pro e di Serie D, ben 28 partite truccate! E poi l'istruttoria Antitrust nei confronti di Sky Italia, Rti-Mediaset, Infront Italy e della Lega di Serie A sull'assegnazione dei diritti tv per il campionato di calcio nel triennio 2015-2018, volta a verificare se siano intervenuti "accordi spartitori" fra Sky e Mediaset" e se ci sia stata un'intesa restrittiva della concorrenza. L'unica cosa che si dovrebbe fare è fermare il calcio italiano per un anno, il tempo per pensare, cancellare, ristrutturare, ripartire, nella speranza di un pallone migliore. Sotto, Oviedo 1991. E forza Genoa!

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Emerge che... - da Un Cuore Grande Così il 19/05/2015 @ 07:13

Dalla rassegna stampa (e non solo) emerge che cure obbligatorie per fermare l'anoressia, una malattia che colpisce sempre più ragazzi e può anche uccidere. L'idea è quella di imporre il nutrimento e le cure psicologiche e psichiatriche necessarie a ragazze e ragazzi che rifiutano il cibo. A chiedere il trattamento sanitario obbligatorio per i casi di gravi disturbi del comportamento alimentare è la deputata del Pd Sara Moretto (voto 9,3 alla proposta), con una proposta di legge che sarà presentata domani alla Camera dei deputati, alle 14,30. Un provvedimento che ha l'obbiettivo di salvare tante vite: le persone con questa patologia hanno una mortalità tra le 5 e le 10 volte maggiore dei loro coetanei. Spesso il problema viene individuato troppo tardi, visto che nella maggior parte dei casi i medici di famiglia non riescono a individuare precocemente le persone con disordini alimentari. I pazienti 'nascondono' a lungo i loro problemi e si interviene quando la malattia si è cronicizzata.

Se la vita è a rischio. "Il trattamento sanitario obbligatorio per i pazienti affetti da disturbi alimentari e in pericolo di vita è un tema delicato e indispensabile da affrontare - spiega Moretto - . Il Tso si applica ai problemi psichiatrici. La bulimia e l'anoressia nervosa sono disturbi psichiatrici, ma non c'è una norma che obbliga i pazienti maggiorenni ad accettare la nutrizione obbligatoria, se la rifiutano. C'è un buco normativo. A volte i medici intervengono in autonomia, ma altre volte molte ragazze non accettano le cure e si lasciano morire lentamente. In altri casi decidono di suicidarsi".

Il rifiuto delle cure. La difficoltà di accettare la cura è uno dei più importanti fattori di cronicizzazione dei disturbi del comportamento alimentare. Secondo la letteratura scientifica il 6-10% delle persone affette da anoressia muore e almeno la metà di queste morti è conseguenza della malnutrizione e delle sue complicanze organiche, mentre il restante 50% si toglie la vita. "La proposta - spiega Moretto - nasce dalla constatazione che molte persone affette da disturbi del comportamento alimentare rifiutano, stabilmente o periodicamente, i trattamenti sanitari. In modo particolare c'è spesso un rifiuto dei trattamenti nutrizionali anche quando hanno caratteristiche di cure salva vita o, comunque, in condizioni di grave malnutrizione. Abbiamo preso come spunto l'esperienza dell'ULSS 10 Veneto Orientale, dove è attivo un Centro che ha raggiunto risultati riconosciuti in tutto il territorio nazionale".

Sostegno alle famiglie. In Italia sono circa 3 milioni le persone colpite da disturbi alimentari, 2,3 milioni sono adolescenti. A volte ci si ammala anche a 10 o 12 anni. Nella maggior parte dei casi il problema riguarda una donna, ma sono in crescita anche i pazienti uomini. "E' urgente fornire alle famiglie delle persone affette da disturbi del comportamento alimentare uno strumento per evitare di dover assistere alla morte dei loro cari. Credo inoltre che il trattamento sanitario obbligatorio per la nutrizione debba essere fornito dal Servizio Sanitario Nazionale, nelle strutture pubbliche di tutta Italia, e debba essere gestito da una équipe multi professionale includente psichiatri, esperti in nutrizione clinica e pediatri. Chiediamo alle Regioni di individuare le strutture pubbliche dove fare questi trattamenti, fra i posti letto già esistenti. E' indispensabile e urgente dare alle famiglie delle persone affette da anoressia e bulimia uno strumento efficace per combattere queste gravi patologie che possono portare alla morte".

Meno quattro giorni a Genoa-Inter, è partita la prevendita (prezzi normali, tranne in Sud: 5 euro donne e Under 16, 10 euro invece gli uomini) e forse si potrebbe sfondare la ormai rarissima quota dei 25.000 paganti (che in epoca moderna solo il derby sembra poter infrangere). Vedremo intanto come andrà il secondo grado per la licenza Uefa, se non sbaglio la sentenza dovrebbe arrivare domani. Sarà importante anche leggere bene le motivazioni, se davvero è solo una questione formale. I rumors parlano di diverse istanze di pagamento della Fifa sparse per il mondo, sempre ignorate... da giocatori meteore come il carneade Jean Pierre Zaine, che ora gioca nell’Aversa Normanna (Lega Pro), ma nel 2012 era da noi, a Palacio col Boca Juniors e Fetfatzidis con l'Olympiakos, infine Zè Eduardo che lamenta un sacco di soldi non pagati, e poi chissà cosa... insomma, non ci resta che attendere e poi decidere cosa pensare in base alla sentenza. Sotto, Modena 1988. E forza Genoa!

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I 7 giochi del calcio di strada che hanno segnato la nostra infanzia - da Un Cuore Grande Così il 18/05/2015 @ 15:18

Noi che siamo cresciuti in strada, con un pallone tra i piedi, ne abbiamo viste tante e poi tante. Ogni pomeriggio era un sogno, una magia che si ripeteva in continuazione. E non c’era mai niente di banale, perchè la nostra fantasia ogni giorno ci permetteva di dare vita a qualcosa di nuovo. Partitelle a tutto campo, oppure più tranquille varianti del giuoco del calcio, ma tutte con due caratteristiche imprescindibili: il divertimento interminabile e la sicurezza che, in ogni caso, prima o poi sarebbe finita a ceffoni. (da: deliquentidelpallone.it)
Andiamo a ripercorrere, con le lacrime che ci rigano il volto per la fortissima botta di nostalgia, i 7 giochi del calcio di infanzia che hanno segnato la nostra infanzia.
La tedesca (da noi il 15? ndr)
Soltanto il campionato argentino ha regole più complicate di quelle della tedesca, regole che potevano variare di quartiere in quartiere. Bastava infatti spostarsi di pochi metri e un colpo che a casa nostra valeva 3 punti, qualche altro lo faceva valere 5. Il che, ovviamente, dava adito a polemiche e litigate infinite, spesso risolte a cinghiate. Le regole di base, quelle che non cambiavano mai, erano che un fesso andava in porta, e gli altri cercavano di fargli passare un brutto quarto d’ora tentando di segnargli gol che valevano la sottrazione di punti, ma solo se segnati al volo. E poi c’era quel meraviglioso strumento chiamato “colpo di culo”. Ogni traversa colpita era un bonus per non andare in porta.E, quando ci si faceva bloccare il pallone, toccava smadonnare e andare in porta. Per non parlare delle innumerevoli amicizie morte per colpa della “bastarda”.
L’americana
Uno in porta, due a scannarsi tra di loro per cercare di fare gol al portiere. Questo svago, solitamente finiva nel sangue, dal momento che i due contendenti decidevano di risolvere la tenzone a colpi di calcioni, in virtù del fatto che saltare l’uomo in spazi spesso ridotti non è poi così facile. Qualche volta poteva capitare che, per precedenti vicissitudini o per episodi di corruzione sorti sul momento, il portiere potesse essere in combutta con uno dei due giocatori, lasciando passare, in maniera del tutto insospettabile oppure (se proprio voleva far innervosire l’altro) in maniera palese tutti i tiri del suo favorito. Per non parlare di quante volte l’uomo in porta, se si trattava di un torneo con classifica, avesse interessi a far vincere uno piuttosto che un altro. Insomma, l’americana è stata la prima esperienza per molti di noi con la magica parolina “combine”.
Il tutti contro tutti
Le guerre di secessione e quelle civili hanno lasciato molto meno sangue per terra rispetto a quanto ne abbia sparso il tutti contro tutti. Non era quasi mai organizzato intenzionalmente, ma erano spesso le circostanze a mettere in piedi una partita di tutti contro tutti. Quando il gruppo di ragazzini è lì da più di un’ora, e non si riesce nè ad arrivare ad un numero pari per la partitella, o a trovare un accordo sulle squadre, allora il fenomeno di turno proponeva, urlando: “Dai, facciamo il tutti contro tutti”. In genere il più pacato di tutti se ne andava in porta, gli altri davano vita a una tonnara indescrivibile, tra calcioni, pugni, schiaffi e sputi in faccia. Alla fine del tutti contro tutti in genere si contavano i morti, e per i 3 giorni successivi nessuno dei partecipanti riusciva a prendere parte a nessun tipo di attività che prevedesse la deambulazione.

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Il battimuro/Muretto
Se buona parte dei ragazzi cresciuti in strada è diventata scema, è colpa del battimuro. Un flipper di rimpalli, in cui più di qualcuno ci ha rimesso qualche arto, o il naso, più spesso. A seconda che si giocasse con un pallone di cuoio (fortunelli) o con un Super Tele, ci si poteva distruggere i piedi a furia di prendere addosso palloni che prendevano velocità e forza ogni volta che incocciavano sul muro oppure sfasciarsi menisco, legamenti, rotula e quant’altro lisciando una sfera che prendeva direzioni diverse e imprevedibili a ogni tocco. In genere il battimuro finiva con la gente che si tirava reciprocamente addosso il pallone urlandosi frasi irripetibili. Le regole potevano variare da regione a regione, ma in fondo, forse, nessuno le ha mai capite a pieno. E nemmeno importava così tanto.
Il porta a porta
No, non è Bruno Vespa, non ci sono plastici e discussioni da bar sulla manovra finanziaria o sul delitto di Cogne. Porta a porta, per noi, vuol dire solo una cosa. Noi da una parte, il nostro avversario dall’altra, a tentare di fare gol da una parte all’altra del campo. In base alle regole di ingaggio si potevano usare le mani oppure no. Se non si potevano usare le mani, di solito ci si faceva malissimo tentando di parare il pallone con le parti del corpo meno prevedibili. In genere, naso, muso e denti erano le parti preferite. Quando invece si potevano usare le mani, in genere si usavano per provare a fare gol simulando il rinvio del portiere. E si perdeva il conto dei palloni andati persi per le terre agricole circostanti.
La partitella
L’apice dei nostri pomeriggi estivi di gioventù, il momento più atteso. Radunati dai 10 ai 14 disperati per strada, e fatte, dopo accesissime discussioni, ovviamente, le squadre, si poteva giocare in un modo che poteva ardimentosamente definirsi organizzato. C’erano i fenomeni che non la passavano a nessuno, quelli che legnavano chiunque, quelli che attaccavano briga per qualsiasi cosa. L’assenza di un arbitro (a meno che qualcuno che solitamente aveva il gesso, che da piccoli era abbastanza frequente, non volesse sentirsi parte del gioco) rendeva il tutto più cruento e sanguinolento. La durata della partita era ovviamente indefinita, e il fischio finale avveniva per circostanze ogni volta diverse: la mamma che chiamava tutti a raccolta, il pallone disperso, e, ultimo ma più frequente, la litigata furibonda tra uno o più giocatori.
La pallina in casa
Non è strada, ma è una parte ineludibile della nostra infanzia. Quando calava l’inverno, e fuori non si poteva più andare, ecco che le nostre eroiche gesta si trasferivano in casa, per la gioia delle nostre mamme che dovevano raccogliere suppellettili distrutte e fare la conta delle impronte lasciate sui muri. I più fortunati avevano uno o più fratelli con cui dare vita in casa a vere e proprie faide. Nulla insegna il controllo di palla e il saper giocare negli spazi stretti quanto aver giocato per anni in casa con una pallina (di gomma, o, in assenza d’altro, di Gazzette dello Sport arrotolate) con qualche disperato che tenta di azzannarti le caviglie tra un soprmmobile e un tavolo. I lividi lasciati dagli spigoli e dalle pantofole della mamma duravano a lungo.

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Emerge che... - da Un Cuore Grande Così il 18/05/2015 @ 07:09

Dalla rassegna stampa (e non solo) emerge che Gasperini ha fatto il miracolo ed è andato a stravincere 1-4 a Bergamo con un squadra priva di Perotti, Borriello, Niang, De Maio, Costa, con un Lestienne brutto e un Roncaglia con limiti dichiarati ... in pratica, c'era l'impressione che poteva giocare chiunque ma il risultato sarebbe stato sempre quello: 2 fisso! stato di forma fisica clamoroso, yes, gruppo di ragazzi seri, yes, gioco di squadra imparato a memoria, yes, crescita impressionante di alcuni singoli come Bertolacci e Iago Falque, yes, ma pare esserci anche dell'altro, qualcosa che sa molto di patto tra mister e giocatori, insomma cose loro, ma iniziare a vincere con questa costanza smanettando 4-5 goals a partita non è normale... ora aspettiamo gli inevitabili segnali dalla dirigenza, vediamo un pò se, almeno per questa settimana, riescono a non parlare di mercato, ingaggi, procuratori... arriva l'Inter e l'ultima in casa sembra poter essere un partita piena di significati: la situazione è in parte surreale, c'è chi confida nel ricorso, c'è chi non ci crede per nulla, c'è chi mette in risalto la supremazia cittadina, c'è chi dice che non serve a nulla se poi facciamo andare loro in Europa... insomma, un bel finale da Genoa, con una certezza: la componente sportiva del Genoa CFC 1893 sta dando il bianco, erano anni che non si vedeva uno spettacolo del genere, complimenti a tutti, in testa mister Gasperini. E forza Genoa!

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Emerge che... - da Un Cuore Grande Così il 17/05/2015 @ 07:49

Dalla rassegna stampa (e non solo) emerge che dopo le due sconfitte di Inter e Doria il discorso europeo fa ancora più rabbia. Ma lasciamo perdere questa tristissima pagina, e manteniamoci alla supremazia cittadina: oggi abbiamo la possibilità del sorpasso! Riuscirà Gasperini a compiere il miracolo? a motivare i giocatori nonostante l'atteggiamento "contro" da parte della Società? riuscirà a mantenere i suoi giocatori concentrati anche se la Società ha già "smobilitato" da questo campionato, con Capozucca e Preziosi già scatenati? senza Perotti Niang e Borriello, che Genoa potrà scendere in campo? També, Izzo, Roncaglia, Lestienne, Bergdich, Pavoletti, Laxalt... cioè, è davvero possibile vincere una partita con questo livello di rosa odierna? e poi, vincere oggi non rappresenterebbe una mossa che in un certo senso potrebbe mettere in ulteriore difficoltà la Società? e se pareggiassimo? con un punto raggiungiamo la Doria, ma negli scontri diretti siamo dietro, quindi bisognerebbe rosicchiarne ancora uno nelle prossime due partite, faccenda molto difficile perchè loro giocheranno con Empoli e Parma, anche se andare a Empoli non vuol dire vincere matematicamente... però tu devi vincere con l'Inter e a Sassuolo, improbabile. Mah, vedremo, io so solo che oggi a livello psicologico Gasperini deve fare un miracolo, magari aiutato dai 1.500 tifosi rossoblù che stanno partendo da Genova. E forza Genoa!

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Emerge che... - da Un Cuore Grande Così il 16/05/2015 @ 07:29

Dalla rassegna stampa (e non solo) emerge che nessuno risponde. Il campanello non smette di suonare, ma nessuno risponde. Nando Sepe, professione manager, tiene il dito incollato sul citofono, ma nulla. Eppure la Citroën verde di Mimì è parcheggiata lì fuori, all'esterno di quella palazzina di due piani in via Liguria 2, a Cardano del Campo, Varese. E in quella mattina del 14 maggio di venti anni fa, Sepe chiama la padrona di casa, si fa dare le chiavi di riserva. Ma la porta è chiusa dall'interno. Quando poche ore dopo i pompieri la sfondano, Mia Martini è stesa sul letto, le cuffie del walkman sulle orecchie. "L'espressione serena", diranno. È morta da quarantotto ore. La notizia sbriciola i palinsesti televisivi. Renato Zero chiama Loredana Berté, la sorella di Mimì: "Spegni tutto, sto arrivando". I cronisti appostati sotto casa della Bertè ricordano ancora le urla. E, di ricordo in ricordo, dopo vent'anni nessuno ha dimenticato quella voce magnetica, dolce, scura, emozionante e quelle melodie che Mia Martini ha regalato alla musica italiana.

"Ci sarebbero pure 'sti due amici". Funzionava così: era la frase classica che completava una strategia infallibile. Roma, 1968, Loredana Berté in minigonna a chiedere l'autostop. E poi Mimì, con l'immancabile bombetta, quasi uscita da un film di Fellini, che con Renato sbucava sulla strada per prendere al volo il passaggio conquistato. Inseparabili, i tre. Cercavano di mettere su un gruppo musicale. Per la Martini, ventunenne, era già la fase due della carriera: aveva iniziato nei primi anni Sessanta. Un viaggio in treno da Ancona verso Milano, Etta James nel cuore, Carlo Alberto Rossi che le fa incidere i primi singoli. Poi i concerti sulla riviera romagnola, qualcuno con Pupi Avati alla batteria. Qualche piccolo successo, ma la carriera da ragazza ye-ye non decolla. Mimì sta per lasciare, inizia a lavorare al sindacato dei musicisti, ma la passione per la musica è troppo forte. Quella Roma le restituirà la voglia di continuare. Diventa amica di Gabriella Ferri. Sperimenta con piccoli gruppi jazz. Sta per farcela. Poi in Sardegna, nel 1969, l'arresto per possesso di hashish e la condanna a quattro mesi di carcere. Le cambieranno la vita.

Una dinamica maledetta di ombre e di luce, di pace e di dannazione, di sorrisi e di lacrime. La vita e la carriera di Mia Martini si sono sempre mosse tra gli estremi, saltando le vie di mezzo, i compromessi, la sciatteria, la mediocrità. Dopo l'arresto Mimì torna a Roma, sbarca a Civitavecchia in una giornata di pioggia. Entra in un bar, prende un cappuccino e inizia a berlo sotto il diluvio. E sorridendo decide di non rinunciare al suo sogno. Sceglie il jazz. Ritorna a essere "Domenica" (il suo nome completo è Domenica Rita Adriana Berté) e con il trio di Totò Torquati conquista il pubblico del Titan di via della Meloria, del Piper di via Tagliamento. L'occasione della vita le capita nel febbraio del 1971. Deve correre al Piper di Viareggio, c'è da improvvisare una serata. Il pubblico resta a ballare fino alle quattro di mattina. Alberigo Crocetta, proprietario del Piper e mentore di Patty Pravo, si offre di produrla. Mimì rifiuta una prima volta. Poi cede. "Dobbiamo cambiare nome però. Ci vuole un nome italiano riconoscibile nel mondo. Ho pensato a Martini", dice Crocetta. "Va bene: però mi chiamerò Mia, come Mia Farrow". La storia ha inizio.

Gli anni Settanta saranno i suoi anni. Inizia a collaborare in modo stabile con Baldan Bembo, Bruno Lauzi, Claudio Baglioni. Con Franco Califano scatta l'alchimia musicale. C'è questa canzone, Minuetto, ma nessuno riesce a scrivere le parole giuste per Mia. Lei e Califano escono una sera a cena. Parlano tanto. E "il Califfo" ritorna il giorno dopo con un testo che sembra un pezzo pregiato di sartoria artigianale: perfetto per la Martini. "E vieni a casa mia, quando vuoi, nelle notti più che mai / dormi qui, te ne vai, sono sempre fatti tuoi". Nell'Italia dove maistream fa rima con piccolo-borghese le parole, il volto, l'immagine della Martini sono come un metallo pregiato, come un diamante: l'autenticità professata come valore assoluto. La sensibilità come guida. Talmente forte che le piccole, idiote e meschine armi che lo show business inventa per fermare la Martini diventano tanti colpi. Le dicerie sul suo "portar jella" iniziano allora. Non si fermeranno mai. Mimì prima ci sorride. Poi ci sta male. Crisi cicliche. Sempre più pesanti.

Fino alla decisione di ritirarsi dalle scene, nei primi anni Ottanta. Non bastano la stima, l'affetto, l'amore che le manifestano Charles Aznavour, Ivano Fossati, Pino Daniele, Paolo Conte, Fabrizio De Andrè. Non basta il Premio della Critica istituito apposta per lei al Festival di Sanremo nel 1982, quando ipnotizza tutti con E non finisce mica il cielo. Non basta la sfrontatezza di Loredana con cui collabora per Non sono una signora. Non basta neanche la venerazione che tanti giovani talenti, da Ramazzotti in giù - per il cantautore romano inciderà i cori del ritornello di Terra promessa - le manifestano. Mia decide di darci un taglio. Si rifugia da Leda, la sorella più grande. Cerca una vita ordinaria. È il 1985. Sparisce per quattro anni, si trasferisce a Calvi, in Umbria, solo piccoli concerti di provincia, pochissimi. Poi una sera del dicembre del 1988 un incidente. La sua macchina scivola su una lastra di ghiaccio e la Martini ne esce miracolosamente illesa. Tornata a casa, prima il panico, le lacrime. Poi una risata liberatoria. Decide di ritornare. Di riprendersi il suo mondo.

1989, 21 febbraio, Sanremo. Per capire è necessario il contesto. È necessario inscrivere quel piccolo miracolo in un prima e in un dopo. Il prima è rappresentato dai "figli di papà": Rosita Celentano, Paola Dominguin, Danny Quinn e Gianmarco Tognazzi, che presentano il festival in puro stile anni Ottanta. Dinoccolati e cotonati. Dopo c'è Jovanotti, cappello da cowboy, aria casinista e "No Vasco, no Vasco, io non ci casco". In mezzo, un angelo. Mia Martini entra sul palco sorridendo, attacca Almeno tu nell'universo. Al ritornello alza i pugni al cielo, accompagna presenti e telespettatori su una melodia magnifica, su parole struggenti. Ed è una bomba, pelle d'oca collettiva. Rivince il premio della critica. Ritorna dal suo pubblico. Ricomincia a vivere e respirare. Verranno La nevicata del '56, Gli uomini non cambiano. Verrà il successo, di nuovo.

"Piccere', canta". Roberto Murolo le sorride nella sua casa napoletana. I due, è il 1992, stanno provando una canzone di Enzo Gragnaniello, Cu 'mme. Quattro minuti e mezzo di magia, uno spazio in cui si dispongono tradizione, rabbia, commozione, rimpianto, voglia di vivere, paure e desideri. A quarantacinque anni Mia Martini è ormai patrimonio indiscusso della canzone italiana. Nel 1993, dopo un decennio di reciproci silenzi, corre da Loredana ricoverata in ospedale. Baci e carezze e un progetto: ritornare insieme a Sanremo. Lo faranno l'anno successivo. Poi quello che sarà il suo testamento. Un disco di cover registrato dal vivo - prodotto dal suo amico Shel Shapiro - dei "suoi" cantautori: La musica che mi gira intorno. Ancora Fossati, Mimì sarà di De Gregori, Fiume di Sand Creek di De Andrè. In Dillo alla luna di Vasco Rossi l'interpretazione più intensa. Tutto sembra andare. Tutto s'interromperà il 12 maggio. Poi i funerali, vagonate di parole. Le polemiche postume. Il ruolo del padre nella sua vita e nella sua morte. Le indagini, l'autopsia, i medici che mettono nero su bianco le cause del decesso: overdose di cocaina. Patina. Che nulla toglie alla voce di Mimì. "Una monomaniaca della musica", secondo Ivano Fossati che con lei ha condiviso una pezzo importante di vita. Mina: "Per fortuna il suo talento dolente e intenso è rimasto qui, nei suoi dischi. Io ho anche fatto un suo pezzo, Almeno tu nell'universo, ma meglio la sua versione". E un giorno Fabrizio De André, forse, ha sintetizzato il sentire comune, definendosi "innamorato totale della sua arte e della sua umanità". Lo siamo ancora, vent'anni dopo: totalmente innamorati di Mimì.

Ahahah! in piena corsa europea, con la concreta possibilità di poter passare la Doria già domenica, e concludere quindi un campionato in modo clamoroso... ecco che nel giro di 48 ore sentiamo: Preziosi che dice "Non verrà accolto il ricorso", Preziosi che dice addio a Perotti (infortunato, non lo rivedremo più), Preziosi che polemizza male con Perin e il suo procuratore, addirittura Niang che il giorno dopo il suo infortunio scrive già l'addio "Grazie a tutti per aver creduto in me"... ahahah! infine, c'è Marmorato che nella sua rubrica ieri ha scritto "Per quanto riguarda l’Europa League oltre il dispiacere di non parteciparvi a caldo, a freddo dopo le parole del Joker potrebbe anche essere un beneficio per la prossima stagione: viaggiare in Europa con le ruote gonfiate non al meglio non si farebbe molta strada", e, come se prima l'Uefa e poi Preziosi non avessero detto nulla, aggiunge "Dispiace che Mister simpatia Della Valle, ieri sera alla sconfitta della Fiorentina contro il Siviglia abbia detto: abbiamo l’Inter e la Sampdoria a pochi punti e non è questo il momento di mollare. C’è da fare 9 nove punti e mantenere il quinto posto in classifica. Mister Tod’s: complimenti, ti sei dimenticato del Genoa per un lapsus o leggi nella sfera della FIGC sul ricorso dei rossoblu?"... buongiorno, notte.

Sotto, Ramon Turone saluta la Nord (1972). E forza Genoa!

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Luglio 1982 quando Paolo si traduceva solo Pablito - da Un Cuore Grande Così il 15/05/2015 @ 11:49

Paolo Rossi, viva la vida... Pablito! (da calcionews24.com) «Mi stupisco che non abbiano ancora fatto un film su Spagna '82. A Hollywood una sceneggiatura del genere se la sognano...»
Attendevo questa intervista da più di 30 anni. Da un pazzesco tardo pomeriggio del luglio '82 con le persiane abbassate e i primi colori televisivi (l'era neanderthaliana dell'attuale HD...) che mischiavano tipo tela impressionista il verde dell'erba con i cromatismi azzurri e gialli delle magliette (sudate) in campo. Volevo sapere perché quel calciatore magrolino, smunto e con il pomo d'adamo sporgente ci aveva reso tutti così felici. Sapete, veniva da un periodo difficile e aveva il numero 20 talmente grande che le sue spalle parevano svaporizzarsi. Perché d'accordo la storica tripletta, d'accordo l'impresa imprevista (ma meritatissima) col Brasile di Zico & c., d'accordo le bandiere, il casino ed i mortaretti, ma quella in fondo era solo un'altra partita di calcio. Crescendo, poi, ho cominciato ad intuire (il football come specchio della società, l'emozione dello sport che allontana le amarezze della vita, la rivincita della partita dell'Azteca andata in scena nel 1970 ecc.) ed oggi finalmente ho le idee un po' più chiare mentre Paolo Rossi si materializza davanti a me, in un hotel ad un passo da Milano, per l'intervista concordata con CalcioNews24.
Non è cambiato granché da quella lontana estate (il fisico sempre in forma, il capello inevitabilmente più grigio e un modo curioso di socchiudere gli occhi mentre racconta) o forse sono io che sono rimasto troppo a lungo là. All'indimenticabile Mondiale spagnolo del 1982. All'amore ai tempi di Pablito come racconta un bel libro di Luigi Garlando uscito qualche anno fa. Al mito (sì, il mito) del nostro calciatore azzurro più iconico assieme a Meazza, Riva e Zoff. Questi sarebbero i suoi Tempi Supplementari, ma in realtà è pure un bel viaggio tra passato e presente come ben illustra una recente mostra dedicata allo stesso Rossi e ricca di cimeli d'epoca, casacche originali, il Pallone d'Oro '82 e video da pelle d'oca. Ho già scritto troppo, la parola passa subito all'hombre del partido.

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Partiamo dalla stretta attualità: la tua mostra monografica sarà un giorno anche itinerante? «Penso proprio di sì. Il progetto è nato per iniziativa del comune di Gaiole in Chianti (dove la mostra 'Pablito' è rimasta aperta dal 5 al 26 aprile scorsi, ndr) ed io mi ci sono buttato con il solito mix di divertimento e scrupolo. Ora a Milano c'è questa bella opportunità dell'Expo, chi lo sa che non si riesca ad organizzare qualcosa anche in Lombardia. O altrove.»
Lo scorso marzo, invece, hai inaugurato la 'Paolo Rossi Accademy' (alias la tua scuola calcio) in quel di Perugia: un messaggio subliminale rivolto al football italiano? «No, quella è stata semplicemente una scelta passionale senza alcun collegamento con le vicissitudini attuali del nostro calcio. In pratica ho creato questa Accademy perugina per stare in mezzo ai ragazzi il più a lungo possibile, seguendo fino in fondo la mia vocazione di 'giocatore per sempre'. Vocazione che, come si è visto, non ha mai coinciso con le ambizioni di un allenatore o di un dirigente.»
Piccoli "Pabliti" crescono? «Speriamo! (sorride) Speriamolo sul serio. In Nazionale, d'altronde, ci mancano i grossi ricambi generazionali e l'unico calciatore su cui io puntavo tanto, Pepito Rossi (un vero esempio comportamentale, il suo), al momento è ancora in via di guarigione. Il fatto è che i giovani italiani di 18/19 anni, se bravi e motivati, devono assolutamente trovare spazio nelle nostre squadre di club; altrimenti tutto il movimento cresce piano e poco. Soprattutto a livello di maturazione.»
Quindi stai dalla parte di Sacchi? Sensazionalismi a parte... «Sto totalmente con Arrigo quando dice che ci sono troppi stranieri a tarpare le ali ai nostri U21, ma anche U17 se è per questo... Mi rendo conto che le società lo facciano per convenienza economica, però è giusto dare una chance a chi è nato nella Penisola. Se no bye bye al Rossi di Vicenza, giusto per citarne uno...»


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I ragazzini della tua Accademy sanno chi è esattamente quel signore con la chioma brizzolata chiamato Paolo Rossi? «Diciamo che mi guardano con curiosità ed ammirazione. Sai, viviamo in un'epoca tecnologica e, grazie a YouTube, ora si può recuperare ogni cosa. Avercelo avuto Internet ai miei tempi quando i gol di Puskas e Di Stefano potevi solo immaginarteli con la fantasia! (ride) Non finirò mai di ringraziare mio padre Vittorio per avermi portato allo stadio di Firenze, da piccolo, a vedere le giocate incredibili di Hamrin...»
Cos'ha avuto di tanto mitologico il Mondiale dell'82 rispetto a tutti gli altri? A parte il fatto, ovviamente, che l'abbiamo vinto noi... «È stato il primo Mundial realmente mediatico e televisto ovunque. Si giocavano gare tipo Belgio-Argentina, Brasile-URSS o Italia-Camerun e subito le immagini venivano catapultate in tutto il mondo ad una velocità pazzesca. Io me ne sono reso conto sulla mia pelle quando, tempo dopo, andai a visitare un piccolo villaggio nell'Amazzonia peruviana. C'erano quattro baracche in totale con un'antenna traballante sul tetto. E da una di queste è uscita una persona. Mi osserva per qualche istante e poi mi fa: 'Bienvenido, Pablito!'. La mia immagine pubblica era giunta fino lì...»
Non c'era il rischio di perdersi, nel cuore degli anni '80, di fronte a tutta questa fama così sconvolgente? «Difatti un po' ne ho patito. Attorno al 1983 - dopo aver vinto Mondiale, titolo di capocannoniere, Pallone d'Oro e Scarpa d'Oro - mi sono detto: 'E adesso che combino?'. Inutile fingere: mi erano venuti a mancare gli stimoli nonostante giocassi e segnassi in una squadra fantastica. Una Juventus piena zeppa di amici che, in quel periodo, avrebbe vinto lo scudetto e tutte le competizioni europee. Quelle furono ancora delle buone annate, ma poi...»
Dopo vennero le stagioni chiaroscurali col Milan e il Verona... «E lì ho capito che un'epoca irripetibile stava davvero finendo. Non tanto per la stanchezza fisica o gli infortunii alle ginocchia (tanti, troppi), ma perché avevo finito la benzina dell'entusiasmo. Non ne avevo più, ero saturo.»
Recuperiamolo subito quell'entusiasmo. E ributtiamoci in quel Mondiale spagnolo ad alto tasso di emotività. «Vuoi sapere la verità? Mi stupisco che a nessuno sia mai venuto in mente di farci un film su Spagna '82. Quella fu una sceneggiatura assolutamente perfetta e, se chiamassi ora dieci autori hollywoodiani, per me non riuscirebbero a scrivere di meglio... Era già tutto racchiuso in quell'estate: il ritiro di Alassio, le speranze disattese di Vigo, le polemiche disturbanti, il silenzio-stampa deciso in cinque minuti dopo aver preso il caffè... E poi la coerenza di Enzo Bearzot, lo snodo cruciale di Barcellona, Italia-Argentina, Italia-Brasile, la mia resurrezione imprevista, il trionfo di Madrid, il pranzo del giorno dopo al Quirinale con la Coppa FIFA in mezzo alla tavola. L'Italia che usciva finalmente da quel buco che furono gli anni '70...»
Gli anni '70 finirono con due stagioni di ritardo. Il 5 luglio 1982 in un piccolo stadio catalano... «Dopo la partita del Sarrià contro il Brasile mi sono sentito realmente invincibile e ho cominciato a dormire meglio. Il giorno dopo mi svegliavo ed era ancora lì: quel senso di grandezza, mio e di tutta la squadra. Ma ho penato tantissimo per arrivarci: giocare una partita vera, dopo 2 anni di stop, fu un dramma. Ok, la testa c'era ma lo scatto non veniva di conseguenza. Intuivo il gol, ma mi mancava quel click tra cervello e muscoli. Però Bearzot - che era tutto fuorché un folle - mi infondeva sicurezza col suo coraggio mostruoso. Lui lo sapeva che, prima o poi, sarebbe successo. E intanto tutta Italia lo voleva linciare...»
E poi c'era l'arma segreta... «L'arma segreta? (sorride)» Sì, la musicassetta di 'Sotto la Pioggia' di Antonello Venditti. «Giusto! (Pablito comincia a cantare ed è pure bello intonato, ndr) I carri armati a fari spenti nella notte/sotto la pioggia... Guarda, quel nastro Cabrini ed io l'abbiamo letteralmente consumato, l'avremo sentito centinaia di volte in albergo prima e dopo le partite decisive. Eh sì, devo ringraziare Venditti per aver involontariamente scritto la canzone-simbolo di quel Mondiale.»
Dove si trova la tripletta al Brasile, Pablito? Te la sogni ancora qualche notte? «Sta là, confinata in quell'afoso 5 luglio 1982. A cominciare dal primo gol, quello segnato di testa su cross al bacio di Cabrini, che ho sempre considerato la rete più importante di tutta la mia carriera.

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Il secondo (l'anticipo su Junior con relativo siluro di destro a far vibrare la rete, ndr) lo segnai in pura trance agonistica mentre il terzo, quando eravamo ancora sul 2-2, l'ho semplicemente 'visto'...» Scusa? «Sì, l'ho visto: quel gol mi si è materializzato davanti tipo preveggenza pochi minuti prima di buttarlo dentro. E poi arrivò pure il 4-2 regolarissimo di Giancarlo Antognoni solo che l'arbitro s'inventò qualcosa e l'annullò. Giusto per farci soffrire fino al 90'.»

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Meno male che ti sei sbloccato dalla Seleção in poi. Così è stato tutto molto più epico, no? «Quello in effetti fu il vero problema di Argentina '78, il mondiale precedente ed un rimpianto che non mi sono mai levato dalla testa. Partimmo a mille: io segnai con Francia, Ungheria, Austria e feci faville sia con i padroni di casa (ricordate il triangolo Bettega-Rossi-Bettega? ndr) che con i tedeschi. Difatti arrivammo alla sfida decisiva con l'Olanda già fin troppo appagati tant'è che quella partita mi è sempre rimasta lì... (sospira) Nel primo tempo avremmo potuto condurre per 3-0 solo che non ci abbiamo creduto abbastanza. Fu un torneo vinto per metà e sicuramente non nei momenti decisivi.»
La tua vicenda "mundial" si chiuderà poi, 8 anni più tardi, a Messico '86. Una manifestazione malinconica, brutta e soprattutto non giocata... «Ero andato là per fare gruppo e basta, un po' come accadde a Facchetti nel '78. Bearzot me lo disse ancor prima di salire sull'aereo: 'Ti porto, ma non giocherai un solo minuto. Lo faccio per te: devi lasciare questo palcoscenico con una bella immagine ed evitare a tutti i costi le brutte figure'. In Messico era davvero finito un ciclo azzurro per molti di noi (Conti, Tardelli, Scirea, Collovati, io ecc.) e l'atmosfera era parecchio ovattata. Sai, quando vinci una coppa del mondo, il bivio è sempre quello: o stravolgi tutto oppure è molto difficile, se non impossibile, ripetersi.»
Ci "parli" ogni tanto col Vecio? «Ci penso di frequente e mi mancano sia la sua umanità che le sue lezioni di vita. Bearzot era un jazzofilo d'altri tempi, con i suoi valori forti. Uno che non ci pensava un attimo ad allontanare i 'disturbatori' dalla sua Nazionale. Però, una volta dentro, diventavi automaticamente suo 'figlio' e grazie alla sua testardaggine positiva il Vecio ti avrebbe portato ovunque. Anche a vincere una coppa del mondo...»
Cesare Prandelli è stato molto "bearzottiano" per un certo periodo di tempo... «Sì, ma prima di Brasile 2014 ha perso la rotta del suo lavoro dando troppo ascolto alla stampa che voleva questo o quello... Mi spiace parlare così perché Cesare è un amico vero, ma il gruppo resta sacro in questi casi. Non si può andare ad un Mondiale con le idee confuse. Così come non è consigliabile cambiare la formazione ad ogni accenno di polemica mediatica.»
È quasi un'ora che stiamo dialogando. Mi sa che si è fatto tardi. «Lasciami solo ricordare tutte quelle persone che hanno condiviso un sogno assieme a me nel 1982 ed ora non ci sono più: Enzo Bearzot, ovviamente, ma anche il povero Gai (Scirea, ndr), Artemio Franchi, il professor Leonardo Vecchiet, il nostro segretario/addetto stampa Guido Vantaggiato, il massaggiatore Sandro 'Sandrone' Selvi. Li porto tutti nel mio cuore.»
Più un certo Sandro Pertini... «Pertini, certo! Un vero esempio di italiano per bene. Uno che non ha mai portato la Politica in Spagna e che non ha mai voluto toccare la Coppa FIFA nonostante i fotografi lo implorassero per un solo, singolo scatto. 'No, la coppa è degli atleti - diceva con quel suo tono perentorio - e qua io sono solo il primo dei tifosi.'. Ma dove lo trovi oggi un altro così?»

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Ma è vero che se ne intendeva di calcio? «Scherzi? Prima della finalissima di Madrid contro la Germania Ovest venne da me a dirmi: 'Rossi, quei tedeschi sono duri come il ferro... Li deve saltare! Ha capito? Li salti, mi raccomando!'. E intanto mi dava dei colpetti sul petto. Una spontaneità sconvolgente. Io lo guardavo e pensavo: 'Questo mi parla come il mio babbo al bar, ma in realtà è il Presidente della Repubblica'...»

Emerge che... - da Un Cuore Grande Così il 15/05/2015 @ 07:41

Dalla rassegna stampa (e non solo) emerge che "per capire come vanno le cose del mondo bisogna morire almeno una volta nella vita ed è meglio che succeda da giovani", dice Romolo Valli, il padre di Giorgio (un giovanissimo Lino Capolicchio) in una scena di Il giardino dei Finzi Contini, il film tratto dal romanzo di Giorgio Bassani. La storia della famiglia altoborghese di origine ebraica chiusa nel suo mondo privilegiato, nel parco della villa di Ferrara, quasi inconsapevole dell'orrore che l'avrebbe travolta e poi vittima delle leggi razziali e deportata a Dachau nel 1943 è sempre attuale. La versione restaurata del film, Oscar nel 1972 come miglior film straniero, sarà presentata a Roma all'Auditorium Parco della musica. Una proiezione speciale alla quale parteciperà la famiglia De Sica con i figli del grande regista, Christian e Emi, organizzata e promossa da Istituto Luce Cinecittà. Il restauro invece è stato promosso da Antony Morato, brand internazionale della moda. "Sono sicuro che mi commuoverò - dice Christian De Sica - perché è un film a cui sono legatissimo e che mi ricorda la mia famiglia, sono stato sul set a Roma e a Ferrara quando papà l'ha girato. E' stato un lavoro importante per lui, il film lo doveva fare Zurlini. Tanti erano scettici, papà aveva sempre lavorato con Cesare Zavattini, con cui aveva un legame strettissimo. Ma in questa occasione lavorò con Ugo Pirro e vinse l'Oscar. Mio fratello Manuel compose la colonna sonora, che fu candidata all'Oscar ma vinsero le musiche di Il Padrino".

La vicenda del timido Giorgio innamorato di Micol (Dominique Sanda), legatissima al fratello Alberto (Helmut Berger), che vive una storia con l'atletico comunista Giampiero Malnate (Fabio Testi), giovani, pieni di vita, immersi nella grande bellezza mentre il fascismo promulga le leggi razziali, esclude gli ebrei dalle scuole, dai circoli, e i nazisti iniziano a deportare le famiglie, fa ancora riflettere. "E' un film importante perché la mia generazione - spiega De Sica - vide cosa succedeva nell'Italia di quegli anni. La differenza che c'è tra il film di papà e gli altri dedicati alla Shoah è che in Il giardino dei Finzi Contini non c'è la consapevolezza di quello che sta accadendo, non viene rappresentato l'orrore. Micol e i suoi amici vivono spensierati, leggendo Cocteau, giocando a tennis, organizzando cene. Quando tutta la famiglia viene condotta nella scuola e poi divisa per essere deportata è un momento che lascia senza respiro perché per tutto il film papà ti fa capire il senso della tragedia imminente ma senza mostrare nulla di esplicito".

Il set fu organizzato tra Roma e Ferrara anche se la villa col famoso giardino non era nella città, è un abile montaggio ad aver creato quel luogo incantato. Molte scene sono state girate a Roma a Villa Ada e al Giardino Botanico, la dimora dei Finzi-Contini invece è villa Litta Bolognini di Vedano al Lambro. L'ingresso del giardino nel film invece è veramente a Ferrara, in Corso Ercole I d'Este, vicino a dove l'aveva immaginato Bassani. "Lo sa perché per il ruolo di Micol fu scelta la Sanda? Perché papà non era riuscito a trovare un'attrice che avesse quel volto aristocratico, bellissimo, da ragazza perbene, si figuri che fece un provino persino a Patty Pravo... Ma Dominique - continua Christian - gli era sembrata perfetta, l'aveva vista in Une femme douce".

Il film fu presentato in tutto il mondo, ebbe successo al botteghino, anche se Bassani prese le distanze perché in disaccordo con le scelte fatte dal regista in fase di sceneggiatura, cambiò l'impostazione del romanzo. "Ricordo la prima a Gerusalemme - racconta De Sica - ero seduto vicino a mio padre che aveva accanto Golda Meir e vicino a mamma c'era Moshe Dayan. Scorrono i titoli di coda e l'applauso non parte, mio padre mi stringe il braccio: 'Non è piaciuto'. Quando si accesero le luci, tutto il pubblico piangeva. Vedere Golda Meir con le lacrime agli occhi è un'emozione che mi porto ancora dentro. Poi ricordo gli applausi, e la felicità di papà".

Sotto, 1978-79, Genoa-Cagliari 1-1, il goal di Berni. E forza Genoa!

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