Conoscete la storia dell’uomo bianco in quella foto? nella Foto? (da: lastella.altervista.org di Riccardo Gazzaniga)
Le fotografie, a volte, ingannano. Prendete l'immagine qui sopra, per esempio. Racconta il gesto di ribellione di Tommie Smith e John Carlos il giorno della premiazione dei 200 metri alle Olimpiadi di Città del Messico e mi ha ingannato un sacco di volte. L’ho sempre guardata concentrandomi sui due uomini neri scalzi, con il capo chino e il pugno guantato di nero verso il cielo, mentre suona l’inno americano. Un gesto simbolico fortissimo, per rivendicare la tutela dei diritti delle popolazioni afroamericane in un anno di tragedie come la morte di Martin Luther King e Bob Kennedy. È la foto del gesto storico di due uomini di colore. Per questo non ho mai osservato troppo quell’uomo, bianco come me, immobile sul secondo gradino. L’ho considerato una presenza casuale, una comparsa, una specie di intruso. Anzi, ho perfino creduto che quel tizio – doveva essere un inglese smorfioso – rappresentasse, nella sua glaciale immobilità, la volontà di resistenza al cambiamento che Smith e Carlos invocavano con il loro grido silenzioso. Invece sono stato ingannato. Grazie a un vecchio articolo di Gianni Mura, oggi ho scoperto la verità: l’uomo bianco nella foto è, forse, l’eroe più grande emerso da quella notte del 1968. Si chiamava Peter Norman, era australiano e arrivò alla finale dei 200 metri dopo aver corso un fantastico 20.22 in semifinale. Solo i due americani Tommie “The Jet” Smith e John Carlos avevano fatto meglio: 20.14 il primo e 20.12 il secondo. La vittoria si sarebbe decisa tra loro due, Norman era uno sconosciuto cui giravano bene le cose. John Carlos, anni dopo, disse di essersi chiesto da dove fosse uscito quel piccoletto bianco. Un uomo di un metro e settantotto cm che correva veloce come lui e Smith, che superavano entrambi il metro e novanta. Arrivò la finale e l’outsider Peter Norman corse la gara della vita, migliorandosi ancora. Chiuse in 20.06, sua prestazione migliore di sempre e record australiano ancora oggi imbattuto, a 47 anni di distanza. Ma quel record non bastò, perché Tommie Smith era davvero “The jet” e rispose con il record del mondo. Abbatté il muro dei 20 secondi, primo uomo della storia, chiudendo in 19.82 e prendendosi l’oro. John Carlos arrivò terzo di un soffio, dietro la sorpresa Norman, unico bianco in mezzo ai fuoriclasse di colore. Fu una gara bellissima, insomma. Eppure quella gara non sarà mai ricordata quanto la sua premiazione. Non passò molto dalla fine della corsa perché si capisse che sarebbe successo qualcosa di forte, di inaudito, al momento di salire sul podio. Smith e Carlos avevano deciso di portare davanti al mondo intero la loro battaglia per i diritti umani e la voce girava tra gli atleti.
Norman era un bianco e veniva dall’Australia, un paese che aveva leggi di apartheid dure quasi come quelle sudafricane. Anche in Australia c’erano tensioni e proteste di piazza a seguito delle pesanti restrizioni all’immigrazione non bianca e leggi discriminatorie verso gli aborigeni, tra cui le tremende adozioni forzate di bambini nativi a vantaggio di famiglie di bianchi. I due americani chiesero a Norman se lui credesse nei diritti umani. Norman rispose di sì. Gli chiesero se credeva in Dio e lui, che aveva un passato nell’esercito della salvezza, rispose ancora sì. “Sapevamo che andavamo a fare qualcosa ben al di là di qualsiasi competizione sportiva e lui disse “sarò con voi” – ricorda John Carlos – Mi aspettavo di vedere paura negli occhi di Norman, invece ci vidi amore”. Smith e Carlos avevano deciso di salire sul podio portando al petto uno stemma del Progetto Olimpico per i Diritti Umani, un movimento di atleti solidali con le battaglie di uguaglianza. Avrebbero ritirato le medaglie scalzi, a rappresentare la povertà degli uomini di colore. E avrebbero indossato i famosi guanti di pelle nera, simbolo delle lotte delle Pantere Nere. Ma prima di andare sul podio si resero conto di avere un solo paio di guanti neri. “Prendetene uno a testa” suggerì il corridore bianco e loro accettarono il consiglio. Ma poi Norman fece qualcos’altro. “Io credo in quello in cui credete voi. Avete uno di quelli anche per me?“ chiese indicando lo stemma del Progetto per i Diritti Umani sul petto degli altri due. “Così posso mostrare la mia solidarietà alla vostra causa”. Smith ammise di essere rimasto stupito e aver pensato: “Ma che vuole questo bianco australiano? Ha vinto la sua medaglia d’argento, che se la prenda e basta!”. Così gli rispose di no, anche perché non si sarebbe privato del suo stemma. Ma con loro c’era un canottiere americano bianco, Paul Hoffman, attivista del Progetto Olimpico per i Diritti Umani. Aveva ascoltato tutto e pensò che “se un australiano bianco voleva uno di quegli stemmi, per Dio, doveva averlo!”. Hoffman non esitò: “Gli diedi l’unico che avevo: il mio”. I 3 uscirono sul campo e salirono sul podio: il resto è passato alla storia, con la potenza di quella foto. “Non ho visto cosa succedeva dietro di me – raccontò Norman – Ma ho capito che stava andando come avevano programmato quando una voce nella folla iniziò a cantare l’inno Americano, ma poi smise. Lo stadio divenne silenzioso”. Il capo delegazione americano giurò che i suoi atleti avrebbero pagato per tutta la vita quel gesto che non c’entrava nulla con lo sport. Immediatamente Smith e Carlos furono esclusi dal team americano e cacciati dal villaggio olimpico, mentre il canottiere Hoffman veniva accusato pure lui di cospirazione. Tornati a casa i due velocisti ebbero pesantissime ripercussioni e minacce di morte. Ma il tempo, alla fine, ha dato loro ragione e sono diventati paladini della lotta per i diritti umani. Sono stati riabilitati, collaborando con il team americano di atletica e per loro è stata eretta una statua all’Università di San José.
In questa statua non c’è Peter Norman.
Quel posto vuoto sembra l’epitaffio di un eroe di cui nessuno si è mai accorto. Un atleta dimenticato, anzi, cancellato, prima di tutto dal suo paese, l’Australia. Quattro anni dopo Messico 1968, in occasione delle Olimpiadi di Monaco, Norman non fu convocato nella squadra di velocisti australiani, pur avendo corso per ben 13 volte sotto il tempo di qualificazione dei 200 metri e per 5 sotto quello dei 100. Per questa delusione, lasciò l’atletica agonistica, continuando a correre a livello amatoriale. In patria, nell’Australia bianca che voleva resistere al cambiamento, fu trattato come un reietto, la famiglia screditata, il lavoro quasi impossibile da trovare. Fece l’insegnante di ginnastica, continuò le sua battaglie come sindacalista e lavorò saltuariamente in una macelleria. Un infortunio gli causò una grave cancrena e incorse in problemi di depressione e alcolismo. Come disse John Carlos “Se a noi due ci presero a calci nel culo a turno, Peter affrontò un paese intero e soffrì da solo”. Per anni Norman ebbe una sola possibilità di salvarsi: fu invitato a condannare il gesto dei suoi colleghi Tommie Smith e John Carlos, in cambio di un perdono da parte del sistema che lo aveva ostracizzato. Un perdono che gli avrebbe permesso di trovare un lavoro fisso tramite il comitato olimpico australiano ed essere parte dell’organizzazione delle Olimpiadi di Sidney 2000. Ma lui non mollò e non condannò mai la scelta dei due americani. Era il più grande sprinter australiano mai vissuto e detentore del record sui 200, eppure non ebbe neppure un invito alle Olimpiadi di Sidney. Fu il comitato olimpico americano, una volta scoperta la notizia a chiedergli di aggregarsi al proprio gruppo e a invitarlo alla festa di compleanno del campione Michael Johnson per cui Peter Norman era un modello e un eroe. Norman morì improvvisamente per un attacco cardiaco nel 2006, senza che il suo paese lo avesse mai riabilitato. Al funerale Tommie Smith e John Carlos, amici di Norman da quel lontano 1968, ne portarono la bara sulle spalle, salutandolo come un eroe.
“Peter è stato un soldato solitario. Ha scelto consapevolmente di fare da agnello sacrificale nel nome dei diritti umani. Non c’è nessuno più di lui che l’Australia dovrebbe onorare, riconoscere e apprezzare” disse John Carlos. “Ha pagato il prezzo della sua scelta – spiegò Tommie Smith – Non è stato semplicemente un gesto per aiutare noi due, è stata una SUA battaglia. È stato un uomo bianco, un uomo bianco australiano tra due uomini di colore, in piedi nel momento della vittoria, tutti nel nome della stessa cosa”. Solo nel 2012 il Parlamento Australiano ha approvato una tardiva dichiarazione per scusarsi con Peter Norman e riabilitarlo alla storia con queste parole: “Questo Parlamento riconosce lo straordinario risultato atletico di Peter Norman che vinse la medaglia d’argento nei 200 metri a Città del Messico, in un tempo di 20.06, ancora oggi record australiano. Riconosce il coraggio di Peter Norman nell’indossare il simbolo del Progetto OIimpico per i Diritti umani sul podio, in solidarietà con Tommie Smith e John Carlos, che fecero il saluto del “potere nero”. Si scusa tardivamente con Peter Norman per l’errore commesso non mandandolo alle Olimpiadi del 1972 di Monaco, nonostante si fosse ripetutamente qualificato e riconosce il potentissimo ruolo che Peter Norman giocò nel perseguire l’uguaglianza razziale”. Ma, forse, le parole che ricordano meglio di tutti Peter Norman sono quelle semplici eppure definitive con cui lui stesso spiegò le ragioni del suo gesto, in occasione del film documentario “Salute”, girato dal nipote Matt. “Non vedevo il perché un uomo nero non potesse bere la stessa acqua da una fontana, prendere lo stesso pullman o andare alla stessa scuola di un uomo bianco. Era un’ingiustizia sociale per la qualche nulla potevo fare da dove ero, ma certamente io la detestavo. È stato detto che condividere il mio argento con tutto quello che accadde quella notte alla premiazione abbia oscurato la mia performance. Invece è il contrario. Lo devo confessare: io sono stato piuttosto fiero di farne parte”.
Tutti i numeri della 12a edizione di Un Cuore Grande Così
- da Un Cuore Grande Così
il 22/09/2015 @ 13:39
IN PRIMIS GRAZIE A TUTTI!!! PERCHE' SENZA DI VOI TUTTO CIO' NON SAREBBE POSSIBILE!!! Si è brillantemente conclusa da pochi giorni la 12a edizione della nostra raccolta estiva. E' stata un'edizione innovativa nel suo proporre in modo assai soddisfacente il metodo di raccolta delle aste online su facebook, ciò ci ha permesso di arrivare a numeri importanti nemmeno ipotizzabili solo 3 mesi fa e quindi di poter accontentare, come già anticipato da Lorenzo, tutte le richieste di tutte le strutture coinvolte. Nel dettaglio snoccioliamo di seguito tutti i numeri di questa estate, numeri che, benchè possano sembrare freddi, in realtà ben fotografano quanta passione e quanta generosità siano insite nell'animo Genoano, sempre pronto e presente in modo tangibile quando ci son persone in difficoltà da sostenere. Ma partiamo con i dati. Quanto raccolto nella sessione estiva è pari a 26.460 euro che, sommati alla cifra raccolta in inverno/primavera, portano il totale a ben 27.915 euro!!! Questi numeri ci hanno consentito di poter sottoscrivere per le 31 strutture beneficiarie 270 abbonamenti (189 distinti e 81 sud) già attivi in toto per la gara contro la Juventus di domenica, e di accantonare per il 2016 la bellezza di 3.839 euro! Le donazioni tramite carta di credito hanno portato in cassa 4.043 euro e sono state giuste giuste 100 da parte di 85 donatori (in 11 hanno fatto due o più offerte); i donatori in Italia ma da fuori Liguria sono stati 7, come anche dall'estero hanno donato 7 persone, tra cui Walter F. dalle Isole Cayman a cui va la palma di Grifone generoso più lontano. Le donazioni tramite conto corrente hanno portato in cassa 8.860 euro frutto di 64 offerte da 61 donatori (in 3 hanno fatto doppietta ) di cui almeno 2 da fuori regione (Milano e Trieste). L'iniziativa de Il Millennio X12 ha portato in cassa 155 euro grazie ai 35 download del copioso file con le reti del Genoa 2014/15 (il file 2015/16 abbiamo l'impressione che potrebbe essere molto meno grande.. ma speriamo di no ovviamente). Altre 7 raccolte di club o gruppi di amici o singoli benemeriti hanno portato in cassa 1.415 euro. Dulcis in fundo arriviamo al capitolo aste, la vera sorpresa positiva del 2015: nelle 49 effettuate lo sbalorditivo risultato ottenuto è stato pari a 11.987 euro! A farla da padrone, come già scritto da Rita, è stata quella annuale delle 30 magliette OldBlock di Roberto che mai come quest'anno, in occasione tra l'altro del decennale del gruppo, ha toccato simili vette, catalizzando da sola 3.642 euro, pari a una media di più di 121 euro a maglia, letteralmente commovente! Poi abbiamo avuto i 400 euro delle 14 magliette sezione Trilocale, altro concepimento geniale ed estemporaneo di Roberto. Infine eccoci ai tormentoni giornalieri a cui siete stati, ahivoi, sottoposti ossessivamente.. ; sono stati ben 7.945 gli euro raccolti in 47 aste! da un doppio minimo di 40 a un massimo di 536! E qui i ringraziamenti si sdoppiano perchè vanno non solo ai 30 "pazzi" aggiudicatari dei pezzi di assoluto valore che hanno speso a volte cifre inusitate, ma anche ai 33 Genoani che, per usare una frase classica, hanno tirato fuori dal cilindro degli autentici gioielli intrisi di Genoanità allo stato puro, spossessandosi quindi di oggetti a cui erano romanticamente legati a doppia mandata per consentirci questi exploit! Questo è quanto è successo, riassunto in poche righe, in questa estate caldissima in ogni senso , a breve ripartiremo con altre aste online su facebook, stavolta però con periodicità settimanale, per mettere altro prezioso fieno in cascina, e esclusivamente per notizia vi anticipiamo di avere in stand by "solo" più di 170 oggetti pronti per essere aggiudicati. Buon Genoa a ciascuno di Voi!! Avanti Grifoni!! e... ANCORA GRAZIE A TUTTI!!! PERCHE' SENZA DI VOI TUTTO CIO' NON SAREBBE POSSIBILE!!!
Franco Bergamaschi il casellante
- da Un Cuore Grande Così
il 21/09/2015 @ 11:47
La parabola di Bergamaschi, da re del mercato '73 a casellante sulla A4 (da: corriere.it)
Questa, in fondo, è la storia di un'inversione a U meno brusca e definitiva di un 5-3 fatalmente decisivo per uno scudetto e dell'estate che cambiò una vita. Il veronese Franco Bergamaschi il 20 maggio 1973 fu uno dei protagonisti della sconfitta del Milan a Verona, da allora diventata appunto «fatal» perché costò lo scudetto della stella ai rossoneri. Bergamaschi aveva 22 anni ed era uno dei talenti più interessanti del calcio italiano, un centrocampista dai piedi buoni. Giocò una gran partita contro la squadra di Rocco e pochi mesi dopo, conteso fra rossoneri e Juventus, finì proprio a Milano a suon di milioni (420): fu il giocatore più pagato del calciomercato 1973. Giocò dignitosamente un anno a San Siro, ma il suo rendimento fu comunque al di sotto delle aspettative. Scese in B al Genoa, poi riemerse, facendo ancora tanta serie A (187 presenze in tutto) col Foggia, ancora col Milan e di nuovo con il suo Hellas. Un brutto infortunio, a 30 anni, lo costrinse a giocare nelle serie minori il finale di carriera. Oggi, a tanti anni da quell' estate, Franco Bergamaschi sta seduto di fronte ai ricordi come una domanda davanti a una risposta fuori tempo massimo. Il pallone è lontano dal casello autostradale di Sommacampagna dove «el bocia» (come lo chiamava Rocco) lavora dal '90. Da San Siro alla A4 la strada può essere lunga e tortuosa più di quanto non si creda, anche se certo non fatale. Insolita, però, quello sì. «Non ho rimpianti» ti marca subito stretto lui, che era una mezzala e non era abituato a difendersi: «Non dico di essere stato fregato, ma all'epoca, senza procuratori, le trattative le facevamo noi. Io ero timido, giocavo solo per puro divertimento. E mi davano meno che potevano. Se tornassi indietro, magari mi farei pestare un po' meno i piedi. Quello che non cambierei mai è l'approccio che ho sempre avuto con lo sport: divertimento e basta». Franco aveva talento da vendere: «Piedi molto buoni, in effetti. E correvo anche molto. Nel '73 vinsi il trofeo (assegnato dal quotidiano «La Notte», ndr) come miglior centrocampista. Davanti a Fabio Capello e Faloppa». Niente male. Niente male anche in Under 21 di Vicini e Under 23 di Bearzot, con Oriali, Pulici e Bordon. Patron Garonzi se lo coccola, Rivera lo vedrebbe bene al Milan e lui nella domenica in cui i rossoneri dovevano vincere lo scudetto gioca come sa. Senza calcoli. Per Franco è il lasciapassare verso Milano, dopo 3 stagioni in A con l'Hellas (aveva esordito nel '70, a 19 anni). «Mi trovai abbastanza bene, ma pagai l'annata negativa della squadra (come Rocco, che fu esonerato, ndr). Forse dovevo essere più determinato. In campionato comunque la squadra non andò come doveva. Segnai un gol in 18 partite: a San Siro contro il mio Verona. Faticai a esultare. In Coppa arrivammo comunque in finale e giocai quasi tutte le partite». E fu decisiva, la mezzala bionda con gli occhi chiari. In finale a Rotterdam vinse però il Magdeburgo e la stagione finì con un'inerzia che non prometteva bene. «Potevo giocare di più, ma non protestavo comunque mai. Poi arrivò una telefonata: ''Ti abbiamo prestato al Genoa''». In Liguria la giovane stella non cade, ma non ha modo di esplodere: gioca 29 gare andando a segno solo una volta.
Meglio il Foggia, con Del Neri e Domenghini, che gli farà anche da testimone di nozze a Verona, dove oggi vive con la moglie Antonella e da cui ha avuto due figlie di 34 e 30 anni. «A Cesena in B mi fratturai tibia e perone. Poi ho giocato a Treviso, Rimini e ho chiuso al Modena a 35 anni». E dopo? «Tra oggi e quegli anni c'è un abisso negli ingaggi dei giocatori. Io i miei capricci me li sono tolti, non ho certo fatto una vita da frate. Ma avendo giocato a calcio per passione non mi andava poi di rimanere nell'ambiente. Non sono sceso mai a patti con nessuno e non ho niente da rimproverarmi». Qualcuno però lo stuzzica, com'è ovvio, perché, dicono, è stato ed è troppo schivo, silenzioso. «Apparivo pochissimo, sui giornali e in tv. Ma ancora oggi al casello qualcuno si ferma, mi riconosce e mi guarda stupito. E lo capisco anche. Tanti però mi fanno semplicemente i complimenti per quello che ho fatto». Senza trarre una lezione su un campione che poteva dare magari qualcosa in più al calcio e a se stesso. «Non lo so. So solo che non avrei mai accettato una ''grande'' per poi non giocare, come oggi fanno in molti. Prendevo la metà dei soldi, pur di correre dietro a un pallone. C'erano sacrifici, tra ritiri e allenamenti, ma mi sentivo un privilegiato: giocare a calcio non è un lavoro». Dopo, un'occupazione vera bisognava quindi cercarsela. «Ho gestito una tabaccheria per un paio di anni, ma non faceva per me. Dal '90 lavoro per le Autostrade». Tanti anni di turni di notte, di feste trascorse al casello di Sommacampagna. Bergamaschi, che è tuttora in gran forma grazie anche all'operazione che gli ha rimesso in sesto l'anca, ha un po' di stanchezza negli occhi. «Questa vita ha cominciato a pesarmi un po'», confessa. E allora eccolo rientrare nel mondo del calcio. «Da agosto 2003 ho allenato i giovanissimi del Verona e ora sono il vice in Primavera. Il calcio è più frenetico di una volta, ma io sono sempre pronto». Il pedaggio è pagato. Anche Bergamaschi è tornato a casa, sul rettangolo verde.
L'incredibile storia dell'altro Kaiser
- da Un Cuore Grande Così
il 19/09/2015 @ 01:21
Il mago del pallone (da: bizzarrobazar.com)
Carlos Henrique Raposo, detto “Kaiser”, attivo negli anni ’80 e ’90, giocò in 11 squadre di calcio, fra cui Vasco da Gama, Flamengo, Fluminense e Botafogo in Brasile, Ajaccio in Corsica e Puebla in Messico. Undici squadre professionistiche, e 0 gol in carriera. Sì, perché Carlos Henrique Raposo, detto “Kaiser”, fingeva di essere un giocatore. E in realtà era un illusionista. Nato nel 1963 da una famiglia povera, come tanti altri ragazzini brasiliani Carlos sognava il riscatto di una vita lussuosa e di successo. Aveva provato a fare il calciatore, ma senza grandi risultati; eppure il fisico, muscoloso e possente, era quello giusto, tanto che spesso veniva scambiato per un calciatore professionista. Fu intorno ai 20 anni che Carlos comprese chiaramente quale fosse la sua missione nella vita: “volevo essere un giocatore, senza dover giocare“. E allora, ecco che decise di affidarsi al coraggio, all’altruismo e alla fantasia.
Coraggio. La faccia tosta di certo non mancava a Carlos “Kaiser”. Frequentatore assiduo della vita notturna di Rio, riuscì a stringere ottimi rapporti con tutta una serie di celebri calciatori (Romário, Edmundo, Bebeto, Renato Gaúcho e Ricardo Rocha che lo definirà “il più grande baro del football brasiliano“) a cui offriva i suoi favori e le sue conoscenze per organizzare feste e incontri. In cambio, cominciò a chiedere ai suoi amici di essere incluso come integrazione nelle trattative per i loro trasferimenti. Bisogna tenere conto che a metà degli anni ’80 non esisteva ancora internet e recuperare informazioni su un calciatore era piuttosto difficile: Carlos era però presentato con toni entusiastici da giocatori insospettabili, che gli permisero di ottenere il suo primo contratto da professionista (3 mesi di prova) nel Botafogo. Da qui comincia una carriera, costantemente nelle retrovie ma comunque retribuita con compensi relativamente alti, e un incredibile gioco di finzione durato più di 20 anni. Altruismo. Prima di tutto, era essenziale guadagnarsi la fiducia dei compagni, la loro copertura e benevolenza. “Quando venivo a conoscenza dell’hotel che ci avrebbe ospitato, mi recavo lì con 2 o 3 giorni d’anticipo. Affittavo camere per 10 donne nell’albergo, in modo che anziché scappare di nascosto io e i miei compagni potessimo semplicemente scendere le scale per divertirci“. Era poi importante assicurarsi qualche articolo nei giornali, a supporto di un talento che non esisteva. Anche questo non era un problema per il “Kaiser”, grazie alle sue esperienze mondane: “ho una facilità incredibile nello stringere amicizia con le persone. Conoscevo bene molti giornalisti di quel tempo, trattavo tutti bene. Qualche regalo, qualche informazione interna potevano aiutare e loro ricambiavano parlando del ‘grande calciatore’“. Fantasia. Una volta ottenuto il contratto appoggiandosi alle negoziazioni per altri giocatori, scattava la seconda parte del piano di Carlos: come riuscire a restare nella squadra senza che l’allenatore si accorgesse che lui non sapeva nemmeno tirare un pallone? La soluzione di Carlos era semplice e geniale – guadagnare più tempo possibile. Inizialmente si dichiarava fuori forma e annunciava di dover seguire un allenamento speciale, deciso da un fantomatico personal trainer. Passava dunque le prime 2-3 settimane a correre a bordo campo, senza partecipare agli allenamenti della squadra. In seguito, quando proprio non poteva più rimandare la sua presenza in campo, chiedeva a un compagno di entrare in maniera scorretta su di lui durante una partita di allenamento e di infortunarlo. Altre volte faceva tutto da solo, fingendo uno strappo muscolare, che in quegli anni era difficile da verificare: “facevo dei movimenti strani durante l’allenamento, mi toccavo il muscolo e me ne stavo 20 giorni in infermeria. A quel tempo non esisteva la risonanza magnetica. I giorni passavano, ma avevo un amico dentista che mi faceva dei certificati dicendo che avevo problemi fisici. E così, passavano anche i mesi…”. In questo modo, giocando 0 minuti in ogni stagione, saltava di squadra in squadra. “Firmavo sempre il contratto di rischio, il più corto, normalmente di 6 mesi. Ricevevo i bonus e me ne andavo in infermeria”. Spesso, visto che anche l’immagine era essenziale, si faceva vedere mentre parlava in inglese con un enorme telefono cellulare (vero e proprio status symbol) con qualche manager straniero deciso a proporgli chissà quale posizione di spicco. Peccato che le sue conversazioni in inglese maccheronico non avessero senso, e che il cellulare fosse un giocattolo. Nelle fila della squadra brasiliana del Bangu, la montatura di Carlos rischiò di finire per aria. L’allenatore, a sorpresa, decise di convocarlo per la partita della domenica e a metà del secondo tempo lo mandò a riscaldarsi a bordo campo. Vista la mala parata, e il disastro imminente di un esordio, Carlos reagì con una trovata davvero eccezionale: d’un tratto, si mise a fare a botte con un tifoso avversario. Espulsione diretta. Quando negli spogliatoi si trovò di fronte l’allenatore infuriato, gli fece credere di aver agito per difendere l’allenatore stesso: “Dio mi ha dato un padre e me l’ha tolto. Ora che Dio mi ha dato un secondo padre, non posso permettere che nessuno lo insulti”. Il tutto si risolse dunque con un commosso bacio in fronte e il rinnovo del contratto. Altro colpo di genio fu quello del suo esordio nell’Ajaccio, in Corsica. Il nuovo calciatore brasiliano fu accolto in maniera inaspettata: “lo stadio era piccolo, ma era gremito di gente in ogni posto. Pensavo che dovessi solo farmi vedere dalla folla e salutare, poi vidi moltissimi palloni in campo e capii che ci saremmo dovuti allenare. Ero nervoso, si sarebbero resi conto che non sapevo giocare al mio primo giorno“. Così Carlos decise di tentare il tutto per tutto con un ennesimo escamotage. Entrò in campo, e cominciò a scaraventare tutti i palloni in tribuna, salutando e baciando la maglietta. I fan andarono in visibilio, guardandosi bene dal ritirare in campo i preziosi palloni toccati dal piede del nuovo annunciato campione. Esauriti i palloni, la squadra dovette procedere a un allenamento strettamente fisico, che Carlos poteva seguire senza problemi. Realtà e menzogne. Dopo una carriera terminata al Guarany, a 39 anni, Carlos Henrique Raposo si ritirò dalle scene con un totale di circa 30 presenze in circa 20 anni (i numeri sono però confusi), tutte terminate in anticipo per infortunio. Ma anche con una storia meravigliosa da raccontare. E qui sta l’unico problema: praticamente tutti gli aneddoti più eclatanti di questa impresa mistificatoria vengono, guardacaso, dalla bocca dello stesso “Kaiser”. Certo, i suoi ex-colleghi corroborano l’immagine di un giovane che sopperiva alla mancanza di abilità calcistica con una immensa dose di sicurezza e spavalderia: “è un grande amico, una persona squisita. Peccato che non sappia neanche giocare a carte. Aveva un problema con il pallone, non l’ho mai visto giocare in nessuna squadra. Ti racconta storie di partite, però non ha mai giocato la domenica alle 4 di pomeriggio al Maracanà, ve lo posso assicurare! In una gara di bugie contro Pinocchio vincerebbe Kaiser”, ha dichiarato Ricardo Rocha. E allora, quando questo Pinocchio emerge dall’oscurità per raccontare la sua “verità”, perché dovremmo credergli? Forse perché è bello farlo. Forse perché la storia di un uomo senza qualità, un Signor Nessuno, che si inventa d’essere un campione, truffando le grandi società calcistiche che oggi spesso sono al centro di scandali di mercato, è un po’ una rivincita per procura che di sicuro fa sorridere diversi appassionati. Forse perché la sua incredibile vicenda, umanamente, è degna di un film. Nel frattempo, Carlos è tutt’altro che pentito: “se mi fossi impegnato di più, avrei potuto spingermi ancora oltre nel gioco“. Non nel gioco del calcio, s’intende, ma nel suo gioco di prestigio.
Renato Cesarini, passato alla Storia per la cosa meno importante (da: calciatoribrutti.com).
Omar Sivori non aveva alcun rispetto. Giocava a calzettoni abbassati per esibire l’assenza di parastinchi, infilava in tunnel difensori pronti a spaccargli una gamba, suggeriva ai portieri l’angolo in cui avrebbe mandato il pallone dal dischetto del rigore per poi buttarla dall’altra parte, insultava senza problemi gli arbitri rischiando (e prendendo) cartellini rossi a ripetizione. Omar Sivori abbassava la testa solo davanti a una persona. Quella persona era l’uomo che l’aveva scovato al River Plate per portarlo in Italia. Il Maestro, così lo chiamava Sivori, era Renato Cesarini ed era stato anche lui un calciatore. Come il suo giovane allievo, amava la vita notturna: se Sivori si presentava al campo di allenamento con degli occhiali da sole per mascherare le occhiaie, lui arrivava direttamente in pigiama o in smoking. Con Sivori condivideva l’infanzia e la giovinezza in Argentina, dalle parti di Buenos Aires. E, come El Cabezòn, a un certo punto della sua carriera aveva preso la nave per attraversare l’Atlantico in direzione Torino, sponda Juventus. Ma per Cesarini quella traversata era un ritorno. Quando aveva pochi mesi i suoi genitori, il calzolaio Giovanni e la casalinga Annetta, avevano deciso di abbandonare Senigallia per emigrare, in un’epoca in cui erano gli italiani ad attraversare il mare per sfuggire alla fame. Per lui, l’arrivo in Italia segnava un ritorno. Fu anche la consacrazione di un ottimo calciatore, uno dei migliori della sua generazione, abbastanza bravo da entrare – anche se non in maniera fissa – nel giro della Nazionale. E proprio con la maglia dell’Italia Cesarini si guadagnò un posto imperituro nello Zingarelli, nella Treccani e nell’immaginario collettivo. Di tanti termini calcistici mutuati nella vita di tutti i giorni, l’immagine della Zona Cesarini è forse quella più utilizzata. Torino, 13 dicembre 1931. La Coppa Internazionale dell’Europa Centrale vede in campo Italia e Ungheria, il meglio del calcio continentale. Il terreno è pesante, la partita è combattuta fino alla fine. I primi 89 minuti e 52 secondi sono scanditi dagli oriundi, che abbondano in entrambe le squadre. L’Italia passa in vantaggio con Julio Libonatti, bomber argentino naturalizzato. L’Ungheria risponde con il romeno naturalizzato ungherese Istvàn Avar. Un altro italiano acquisito dall’Argentina, Raimundo Orsi, segna il gol del nuovo vantaggio. Gli risponde ancora Avar. Verso la fine, gli spettatori cominciano ad andarsene. Sbagliano, perché in campo c’è un uomo che, pochi mesi prima, ha già segnato verso lo scadere contro la Svizzera. E quell’uomo è Renato Cesarini, che oriundo non è ma ha comunque imparato l’italiano di recente. Chi se ne va si perde un fatto storico. Passa una settimana e Umberto Visentin, durante un Ambrosiana Inter-Roma, segna un gol all’89' che regala ai milanesi la vittoria per 2-1. Il giornalista Eugenio Danese si siede davanti alla macchina da scrivere e decide che quella di Visentin è una rete segnata in “zona Cesarini”. Il resto viene da sé. Renato Cesarini, detto Cè, entra nella storia per 8 secondi, come un pendolare in ritardo che sale sul treno mentre le porte si stanno chiudendo. Ma meriti per entrare nella storia ne avrebbe avuti comunque. È un calciatore formidabile, capace di segnare 46 reti in 128 partite con la Juventus. Ha passato la giovinezza in Argentina, imparando il mestiere di calzolaio dal padre ma alternandolo con le performance di acrobata in un circo e quelle di pugile al porto. Arriva in Italia nel 1929, a 23 anni. Quando approda a Torino, Edoardo Agnelli e il vicepresidente barone Mazzonis stanno forgiando quello che diventerà famoso come lo “Stile Juve”: sobrietà, eleganza, signorilità. Cesarini non si scompone e continua a fumare un pacchetto di sigarette al giorno, girando per la città con una scimmia che ha comprato – insieme a un pappagallo – da un uomo che vive per strada. Al collo porta cravatte variopinte e in campo, quando segna, gli capita di esultare esibendosi nei salti mortali appresi al circo. Impara l’italiano nelle case chiuse, apre una sala da ballo. Non si fa nessun problema a tirar tardi la sera, a celebrare la sua voglia di divertirsi senza preoccuparsi troppo delle inevitabili multe della mattina dopo. Un giorno, Agnelli lo trova in un ristorante in orario di allenamento. Gli fa mandare una bottiglia di champagne dal cameriere, per ricordargli chi è che comanda. Cesarini gliene fa arrivare cinque, con tanto di biglietto “domani vinciamo e segno”. Inutile dire che andrà così. Con la maglia bianconera, dopo un anno di ambientamento, vince 5 scudetti di seguito. Non fa parte della nazionale campione del mondo nel 1934, perché Vittorio Pozzo lo considera troppo poco pratico e affidabile. Difficile che gli sia dispiaciuto non partecipare a un torneo in cui gli arbitri fecero di tutto per compiacere il regime fascista che voleva la vittoria: Cesarini è uno dei pochi, negli anni '30, a rifiutarsi di fare il saluto romano. Si accontenta di dominare con la sua squadra, senza mai cedere sulla sua voglia di divertirsi. Di notte gioca a poker, la domenica scende in campo insieme all’amico Mario Orsi che gli ha trovato il contratto da 4.000 lire mensili. Non si arrende mai, non accetta il risultato fino al 90'. Usa tutta la sua fantasia, il talento e l’aggressività per far vedere i sorci verdi ai suoi avversari, intimoriti anche dalla leggenda dei suoi gol allo scadere. Nel 1935, dopo il quinto scudetto di fila, lascia l’Italia e parte per il suo terzo viaggio sull’oceano: ritorna in Argentina, prima con i Chacarita Juniors che lo avevano lanciato negli anni Venti e poi con il River Plate che porta alla vittoria degli ultimi due campionati. Appesi gli scarpini al chiodo, si mette in panchina. L’allenatore si dimostra all’altezza del calciatore: Cesarini crea un modello di gioco bello e terribile, che porta Los Millionarios a dominare il campionato argentino per anni. Un modulo ribattezzato “La Maquina”, basato sulla coesistenza di cinque attaccanti. Lo ribattezzano Bibbia del Calcio, per la sua idea di football totale, dove tutti attaccano e difendono, ben prima che l’Arancia Meccanica di Johan Cruijff si metta in moto. Ma non ha chiuso con l’Italia, dove torna due volte. Si rimette alla guida della Juventus nel 1946, ma meglio che secondo non può arrivare: sono gli anni del Grande Torino. Fa esordire Giampiero Boniperti, che ritroverà negli anni Cinquanta dopo un’altra parentesi argentina. Stavolta porta in dote Omar Sivori, che lo chiama Maestro e gli si rivolge con venerazione. “Cesarini era la persona più competente che ci fosse al mondo in fatto di calcio” sono le parole commosse del Cabezòn, in visita alla camera ardente dell’uomo a cui deve una carriera. Il Cè se n’è andato il 24 marzo 1969. Se l’è portato via un’embolia dovuta ai postumi di un’operazione per asportare un tumore al cervello. Nelle ultime settimane, ripensando ai suoi quasi 63 anni di vita, gli era capitato più volte di tirare un bilancio della sua esistenza. La conclusione era sempre la stessa e non si stancava mai di ripeterla: “Missione compiuta”. Tutti si concentravano su quell’ultimo minuto di Italia - Ungheria, mentre lui aveva usato gli altri per fare ciò che voleva: divertirsi, da questa e da quella parte dell’oceano.
Sotto, Renato Cesarini con la casacca del River nel 1936.
Dalla rassegna stampa (e non solo) emerge che, anticipando un pò i tempi, siamo in grado di darvi le cifre finali di questa XII Edizione targata UCGC. Chiudiamo con ben 27.752 euro, che si traducono in 274 abbonamenti da donare alle Strutture, accontentate tutte per interno nelle loro richieste. Grazie a tutti i nostri sostenitori, a chi ha donato e a chi in questi mesi ci ha ricordato. Da oggi le Strutture scenderanno allo Store per sottoscrivere le tessere, con la Juventus saranno quindi presenti in massa. Buon campionato, amici. Ora andremo in pausa per qualche tempo, anche l'Emerge che..., il rientro è previsto in ottobre con una marea di aste. E forza Genoa!
Dalla rassegna stampa (e non solo) emerge che questa notte in mezzo all'acqua impazzita settoriale e autorigenerante (202 mm a Marassi, solo 18 nella vicina Albaro) si è conclusa la XII Edizione di UCGC, abbiamo aggiunto ancora i 430 euro dell'ultima asta vinta da Riks e il totalone è salito a quota 25.217, più i 1.455 della raccolta inverno-primavera 2015, saliamo verso i 26.700 euro, ma per la somma definitiva bisogna aspettare, contando i tempi bancari... quindi, domani mattina nell'emerge scriverò il totalone 2015 ufficiale. Comunque sia, sarà un successo. E forza Genoa!
Dalla rassegna stampa (e non solo) emerge che eccoci qui giunti all'ultimo giorno di raccolta, chi vuole contribuire può ancora farlo nei canali convenzionali (banca, carta credito, asta). Tra poche ore terminerà l'asta relativa al libro della Fossa, finora in testa Tafax con la puntata di 250 euro (solo questa garantisce al totalone estivo di passare quota 25.000). A mezzanotte invece calerà il sipario. Tra la Panetta e la Vinci, Valeria Golino e Vasco, Valentino Rossi e le allerte meteo, Jeremy Corbyn e Fabio Aru, Milo Manara e i Minions... se avete due minuti, noi vi aspettiamo per concludere alla grande una raccolta unica. E forza Genoa!
Dalla rassegna stampa (e non solo) emerge che siamo arrivati al -2 dal gong finale di questa incredibile raccolta. Incredibile per vari motivi, a partire dalla cifra raccolta per finire, ancora più importante, alla svolta metodologica delle aste, che abbiamo deciso di continuare tutto l'anno, ad iniziare dal mese prossimo dopo una pausa delle 3 settimane settembrine che restano. Le 47 aste effettuate da giugno a settembre 2015 hanno portato nel totalone oltre 11.500 euro. A due giorni dalla conclusione il totalone dice 24.787, più 1.455 della raccolta inverno-primavera 2015, saliamo a oltre 26.000, più l'accantonamento 2014 raggiungiamo vette di oltre 28.000. Questo ci ha consentito di appagare le Strutture che erano state accontentate a metà, o a trequarti. Prima pensavamo di sottoscrivere 200 abbonamenti, poi 220, poi 250, oggi siamo saliti a 263, con ancora qualche margine di crescita: minchia che storia! Un abbraccio particolare ad Agostino e famiglia, il tenero gruppo di Sori: i momenti difficili passano sempre, avanti! E un grazie grande così a Marco, Debora, Giacomo, Lorenzo e Teresa R., la scatenata famiglia di Gavi: così lontano, così vicino. E forza Genoa!
Dalla rassegna stampa (e non solo) emerge che siamo a -3 giorni dalla conclusione della raccolta, il totalone sta crescendo alla grande, siamo pronti per i botti finali e l'obiettivo dei 25.000 euro non è più così lontano, se teniamo conto anche della raccolta invernale 2015 di 1.455 euro, al momento di scrivere siamo a un passo da quota 23.000. Oggi inizierà l'ultima asta, con un gioiellone in palio. Seguite il totalone perchè nelle prossime 72 ore potrebbe cioccare come una lama. E forza Genoa!